martedì 22 dicembre 2015

Hanuman

Era una mattina di smog e polverio. Il sole effondeva un pallido bagliore, di quelli che placano il tempo e piegano gli animi alla malinconia. La vera luce erano le mercanzie, la vita attorno al commercio, il bazar della Old Delhi. Rigattieri, orefici, robivecchi, ambulanti e cucinieri. Gli odori spargevano in strada e l'andirivieni ne incanalava gli effluvi, così da menar ad ogni naso un distinto olezzo. Era un incessante vociare, la calca premeva palmo a palmo, e ovunque cadesse lo sguardo mulinava un gran parapiglia. Pareva Blade Runner o il bar intergalattico di Guerre Stellari o una messinscena Steampunk.

Tiranti, cavi e smunte insegne rampicavano sino ai piani alti degli edifici, per incurvarsi sulla giungla urbana come cupe volte di verzura. Innanzi a un tempio induista un uomo dall'esile corporatura era chino sulla vasca delle abluzioni dei piedi e ne beveva l'acqua; una coppia di Sikh in eleganti abito e turbante fendeva la folla impugnando lunghe lance a punta di losanga; poco oltre un'anziana in sari giallo precedeva di pochi passi una donna musulmana in burqa; un mendicante senza gambe mi toccava il ginocchio perché lasciassi cadere qualche rupia sul palmo della mano aperta.

Poco più avanti un vetturino a riposo giocava sullo smartphone, mentre i colleghi facevano crocchio per rubarsi il cliente; una pietra argentata che affiorava di poco dal terreno era attorniata da donne in preghiera; un pover'uomo, il cui giaciglio della notte era il posto di lavoro, spremeva canne da zucchero con un macchinario a pedale per filtrane il succo bianco; molti sputavano rosso, insozzando le strade in modo rivoltante: masticavano betel, una foglia come d'edera, dal gusto amarognolo, che si mischia a noce d'areca e a calce, e che aumenta la salivazione tanto da impedirgli d'aprir bocca.

Un nugolo di bambini, neri di sporcizia, chiedeva un casco di banane a un venditore che povero diavolo li scansava; sparute mucche ruminavano scatole di cartone e una piccola muta di cani latrava come lupi; più in là un barbiere tra le mosche, e in terra, su un panno sporco, gli attrezzi del mestiere di un dentista a cui mai avrei affidato le mie carie; dirimpetto un aguzzino bucava l'asfalto per infilare due alti pali, estremità di una corda su cui una bambina avrebbe danzato in equilibrio; e chi irrorava d'olio un pentolone nero, chi sgranava il carbone per attizzare il Tandoori, chi impastava Chapati o Samosa o dolci di capra. Era una quotidianità stonata, un coacervo di epoche, costumi e tecnologie.

Divinità Hindu

Sul portale ligneo di un altare votivo incontrai per la prima volta la potente rappresentazione di Hanuman, divinità Hindu. Metà uomo, metà scimmia. Non è un dio idealizzato come il nostro, è quel che appare, una grandezza a cui non riuscivo a dar misura. La religione permea il corpo sociale, stringe a sé il creato, connota l'agire indiano e in quel bazar di Old Delhi ebbi l'impressione che la piena comprensione delle cose mi fosse preclusa.

Il pomeriggio andammo in visita al mausoleo di Hazrat Nizamuddin Auliya, santo sufi caro ai musulmani della capitale. Appena oltre una modesta soglia ad arco ogivale principiava un dedalo di corridoi in marmo bianco che attraversammo scalzi. Ad ogni snodo erano storpi e mendicanti; chiedevano l'elemosina, desinavano, dormivano sulla dura e liscia pietra. Il santuario era al centro di questo meandro medioevale: le donne cantavano in adorazione, fuori dalla Dargah, sedute all'ombra di un maestoso giro di arcate miniate d'oro, e gli uomini, dai bianchi copricapi - chi turbante, chi shashia, chi bandana -, pregavano attorno alla tomba. C'erano fiori, pigmenti e cordoncini votivi di cotone rosso. Eravamo sopraffatti; mai realtà più lontana, era uno di quei luoghi che la letteratura definirebbe “ucronia”: di una coerenza ipotetica, simulata e non realistica.

La religione esprimeva ancora quel per cui io non avevo parole e Delhi mi sembrava uno strano innesto di mondi passati ed eterni, le cui lacere suture architettoniche correvano lungo le principali arterie urbane. Sulla Copernicus Marg, imboccata poco prima alla volta di Nizamuddin, il prospetto stingeva di ricordi coloniali, di esotiche venture britanniche. Matteo, uno dei quattro della compagnia, prese a fischiettare la marcia dei granatieri inglesi. Era Barry Lyndon, era il controcanto di questa nostra avventura a lume indiano.

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mercoledì 16 dicembre 2015

Oasi chipmunk

Domanda da trentamila rupie. Quale animale ha striature bianconere sul dorso? Il maiale, la lepre, il chipmunk o la mucca? L'India brulica di scoiattoli striati, di chipmunk, e ci parve assurdo che la concorrente avesse dovuto utilizzare due aiuti, il pubblico e il cinquanta/cinquanta. Il subcontinente è un mistero affollato di uomini, bestie e bizzarrie. 

Il chipmunk è un roditore di garanzia. Dove lui pasce c'è parvenza di pulito, di decoro: nei giardini di New Delhi, nei prati rajasthani o nelle valli di Mandu. L'India è un'immensa terra dei fuochi e l'insediamento di un sol uomo tanto basta ad appiccare un rogo di pattume, ad esalare fumi di plastica e sterco. Chi vuol essere milionario dovrebbe avviarsi al business dello smaltimento, non senza aver prima condotto una memorabile rivoluzione culturale. Non ci sono le mille e una notte, non ci sono Tremal-Naik e Kammamuri, non ci sono le strade maestre di un modello di vita alternativo. C'erano, chissà; ora è necessario varcare la soglia dell'immondizia, seguire le scorribande del chipmunk.


Ci correvano attorno o si arrestavano sulle zampe posteriori con le nari palpitanti. Stavamo seduti in un riquadro del Char Bagh, il giardino formale persiano che circonda il mausoleo di Humayun, l'imperatore della dinastia Moghul che prese Delhi. Un complesso enorme, così come enormi sono i siti monumentali della capitale. Alle pendici delle loro porte e mura e per vasti tratti di città è un inesorabile germinare di folla che stanchi viali all'inglese vorrebbero arginare, ma che tutt'al più instradano. Fracasso e nevrosi da cui prendevamo respiro. 

Sul retro di una quantità di veicoli campeggia la scritta “Please, Blow Horn”, un dissennato e mai più caro invito indiano a suonare il clacson per ogni minima personale necessità. In strada procedono stipati i tonga, le bici, le moto Hero, i risciò a trazione umana: portantini logori che curvano la schiena in una esse brutale per pesare tutto il proprio corpo su un pedale della bici, e poi su un altro, e poi frenare, e ripartire, mai domi, mai appagati. Carri, pedoni, muli, torme di Tuk-tuk Piaggio, tori, bufali, cani, mendicanti, camion; in altre città cammelli e dromedari ed elefanti dipinti a festa. Il creato in nevrastenia. Ad eccezione del chipmunk, quieto e regale scoiattolo che gioca tra i Banyan delle ovattate riserve architettoniche urbane. 

Al volgere della sera la tomba-giardino di Humayun tramontava i rossi delle sue arenarie nelle vasche d'acqua, lungo i canali ornamentali, nei fontanili. Dalle cupole persiane proveniva un altisonante stridio di pipistrelli, il canto degli uccelli si era arricciato su accordi più rauchi e torniti rapaci planavano sui minareti, sui porticati, sulle volte musulmane. I chipmunk erano spariti e per noi era tempo di tornare al perpetuo pandemonio indiano. Non ancora affatto consapevoli che in India si fugge quanto si va cercando.

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lunedì 14 dicembre 2015

Vacca nera

- Tashkent Palace Hotel. 
- Yes sir.
Il taxi alzava polvere notturna di New Delhi; l'aria era una caligine grigio lucente che presto avremmo imparato essere una costante del caldo inverno indiano. L'autista, un ragazzino, indossava una camicia ocra a quadri sporca e aveva occhi grandi venati di rosso.
- Da che paese venite?
- Italia.
- Italia! - scandendo forte in italiano -, come Sonia Gandhi. Prima volta in India?
- Sì.
- Benvenuti, ma mi raccomando, fate attenzione, siamo in pieno festival e di notte c'è un gran parapiglia, meglio non farsi sorprendere in giro.
L'ammonimento non sortì granché impressione. Benché la foschia rendesse il tragitto ignoto e sospetto, presto saremmo arrivati al Tashkent. 

La grande arteria che imboccammo all'Indira Gandhi Airport si era fatta una strada di media percorrenza e ora una strada più piccola, senz'anima viva che l'attraversasse. La bruma velò sino a pochi metri di distanza uno sbarramento di transenne gialle della “Delhi Police”. L'auto si arrestò, e nell'umido pulviscolo prese forma un uomo munito di torcia. Non era un poliziotto. Parlava con l'autista guardandoci di tanto in tanto. 
- Dice che non si può passare da qui. 
- Come mai?
- È per via del festival sir. Ci sono scontri.
- Procediamo da un'altra via allora.
- Il quartiere è chiuso al transito sir.
- Ma non può essere! Pahar Ganj è immenso, ci sarà un altro accesso.
- No sir, ma non vi preoccupate, andiamo a un ufficio del turismo qui vicino. 
Il ragazzo seguitava ad accampare scuse e in men che non si dica ci aveva portato dove voleva.

Animal India

Non sembrava un ufficio turistico, sebbene una grande insegna ne attestasse l'autenticità, Tourist Office. Ci chiesero il nome dell'hotel, inscenarono una chiamata, ribadirono l'impossibilità a raggiungerlo e infine ci proposero una sistemazione alternativa. Attorno a noi era oramai uno stringente capannello di indiani ed era chiaro che volessero raggirarci. Andrea - il mio compagno di viaggio, altri due ne avremmo incontrati l'indomani sera - telefonò al Tashkent e il receptionist gli consigliò di chiamare la polizia, numero 100. Chiesi all'autista di riportarci in aeroporto, saremmo ripartiti da lì, ma disse di no, il suo turno di lavoro finiva con la nostra corsa. Pagammo il pattuito al ragazzo e zaini in spalle affrettammo il passo verso non sapevamo dove. Cercarono di trattenerci ma nessuno sembrava intenzionato a inseguirci.

La foschia ci sottrasse ai truffaldini figuri per condurci al cospetto di un uomo che quasi nudo, tenendosi le spalle con le braccia, una barba lunga nera e una nenia tra i denti, attraversava la strada in obliquo. Guardavo dove andava, ancora nella bruma, e da dove veniva, altra bruma. Pareva non ci fosse nulla a bordo strada, ma con l'animo un po' più saldo riuscì a distinguere il buio dal buio. La strada era ricovero di corpi dormienti. Uno accanto all'altro, avvolti in striminzite coperte. C'era una vacca, era nerissima, mi sembrò enorme. Alcuni colpi di tosse, un muggito sordo e il ronzare di un Apecar gialloverde che si apprestò a noi per l'ultima volata della notte o la prima del mattino.

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martedì 27 ottobre 2015

Viavai

«Le piazze di Milano non hanno nulla di apprestato: sono incontri casuali di vie nelle quali il vento della fantasia si raccoglie e gioca, perché in questa città tranquilla e felice altro vento non tira, se non quello di una fantasia sottile e pacata» - Alberto Savinio,“Ascolta il tuo cuore, città”, 1943. Fosse questo il sol vento di Milano, non ci saremmo intabarrati tanto da non lasciar fessura, per lungo tempo, neppure ai refoli più salubri. Ma la fantasia non se n'è andata. Si è nascosta nei sotterranei della città, prima che i tanti scavi e gli ultimi cantieri non la stanassero. Sentila. Che soffio, che giri, che altezze. Ora che quasi ogni cosa è costruita, evidente, aperta al pubblico sguardo, ora che la fantasia sibila e girovaga ancora, è l'immaginazione a spirare: qui cos'altro sarebbe potuto sorgere? Quali viavai, quali storie, quali professioni dovrebbero darsi all'incrocio di questi venti? Ad una città edificata ne corrispondono, nei medesimi spazi, infinite altre da costruire - architetture invisibili, strade trasparenti, piazze di luce - nel nome di una vitale e quanto mai ambrosiana cultura del progetto. Proprio ad essa è dedicata una recentissima mostra online - Milano città immaginata - imperniata su dieci progetti urbani mai realizzati, ma fortemente immaginati da architetti del secolo scorso e alternativi a quelli poi inverati. Progetti così solidi e leggeri da farsi davvero desiderabili, così possibili da insegnare a chi li osserva - carte colorate, videate pop, segni tecnici e illustrazioni - il piacere dell'invenzione, delle narrazioni percorribili, del sogno. Dovremmo re-imparare a difendere non solo il corpo degli uomini e delle donne ma anche l'anatomia delle città - oltre Palmira, oltre Pompei: l'archeologia nasce di continuo, qui e ora. Infondo è un gioco d'alchimia urbana quello che lega le passioni e il destino dei cittadini alla storia delle metropoli. C'è davvero qualcosa di magico che stringe la città all'uomo: come Dorian Gray cede la propria vecchiaia al suo ritratto, così la città ringiovanisce a scapito dei suoi abitanti - si guardino le foto scattate anni or sono e si confrontino i luoghi immortalati allora con la loro odierna immagine; e così faremo tra cinque, dieci, cinquant'anni. Sulla pelle della città scintillano la luce di chi ci ha preceduto e un piccolo riverbero della nostra esistenza. Sei mesi sono passati in quell'angolo di periferia milanese, che è già centro di altri mondi, e tutto ancora deve accadere. Che soffi il vento, che sia dolce e sottile.


L'immagine è una elaborazione grafica di Luca D'Urbino, tratta dal progetto “Piazza Del Duomo” per la mostra “Milano città immaginata”.

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giovedì 8 ottobre 2015

Cinema Milano

“Cattedrali della cultura” è un film ideato e prodotto da Wim Wenders e realizzato da sei registi - Michael Glawogger, Michael Madsen, Robert Redford, Margreth Olin, Karim Ainouz e poi Wim Wenders. Una pellicola potente, proiettata nelle sale italiane per un sol giorno, ad aprile. I cineasti hanno raccontato ciascuno un edificio: la Biblioteca Nazionale Russa, il Carcere di Halden in Norvegia, il Salk Institute in California, il Palazzo dell'Opera di Oslo, il Centre Pompidou di Parigi e la Filarmonica di Berlino. Sei intensi cortometraggi per definire una luminosa cartografia culturale contemporanea.
Trentadue anni fa un progetto cinematografico simile, “Capitali culturali dell'Europa”, fu affidato alle lucide visioni di altri affermati registi. Manoel de Oliveira per Lisbona, Theo Anghelopoulos per Atene, Kryzstof Zanussi per Varsavia ed Ermanno Olmi per Milano; il suo “Milano '83” è un documentario serrato - circa 23 inquadrature al minuto, ben 1.500 totali: film di folla e di volti, di professioni e di frenesia, di corse, di mezzi di trasporto, di luci: una Milano non più aderente alla sua odierna figura, seppur ancor impigliata al repertorio cittadino di immagini in/consce, ancor stretta a ricorrenti motivi urbani. 
Tre anni prima usciva “Panni Sporchi” di Giuseppe Bertolucci, splendido docufilm girato per intero alla Stazione Centrale; tre anni dopo, in una Milano piena di cinema - comprese 20 sale a luci rosse - Carlo Vanzina realizzava “Via Montenapoleone” e Tiziano Sclavi metteva al mondo Dylan Dog; al fumettista e alla “sua” inquieta città - balene che nuotano in cielo - Giancarlo Soldi ha dedicato “Nessuno siamo perfetti”, intenso documentario proposto a giugno, in anteprima, allo Spazio Oberdan.


Ermanno Olmi, inviso alla classe dirigente meneghina del PSI proprio per “Milano '83” - e ben accolto a Roma, con la prima al Colosseo -, è oggi celebrato con i lavori di restauro di un'altra pellicola, “Galleria, cuore e memoria di Milano”, girata nel 1967 in occasione del centenario della nascita del “Salotto di Milano”, con la sceneggiatura di Dino Buzzati e alcuni inserti animati di Bruno Bozzetto. 
Poco oltre la Galleria Vittorio Emanuele II Olmi immagina la prima sequenza di “Milano '83”: le luminarie de La Scala si accendono, il foyer si affolla, le corde di un'arpa vibrano, la stampa scatta foto e registra voci, gli spettatori siedono, l'orchestra suona Verdi, la musica avvolge la notte operaia della città. E giunge a noi, verrebbe da dire. Il Teatro, infatti, nell'anno dell'Esposizione Universale è omaggiato da due nuovi film: “Teatro alla Scala - Il Tempio delle Meraviglie” di Luca Lucini e Silvia Corbetta, proiettato per la prima volta proprio nella sala del Piermarini, e “Milano 2015”, presentato alla settantaduesima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia e in qualche modo riconoscente - già dal titolo - al lavoro di Olmi. Anche “Milano 2015” è un racconto collettivo, firmato e diretto da Elio, Walter Veltroni, Roberto Bolle - suo il bel corto su La Scala - Giorgio Diritti, Silvio Soldini e Cristiana Capotondi; il più emozionante è del romano Walter Veltroni, che disseppellisce la storia del velodromo Vigorelli, la pista “magica” del ciclismo mondiale; magica come la definizione, tecnica e sognante, di cinematografo, “una sorta di lanterna magica perfezionata, mediante la quale vengono sopra una tela riflesse figure in movimento” - dizionario etimologico di Pianigiani, Albrighi, Segati & C, 1907.
Ecco dunque la Milano che si specchia - un po' vanità, un po' necessità -, la Milano che proietta su grande schermo le proprie identità, la Milano che tra i poli delle sue eccellenze filmiche (archivi, restauri, sperimentazione: il Museo Interattivo del Cinema, lo spazio Oberdan, il Museo del Manifesto cinematografico in via Gluck, il palazzo Dugnani, il Milano film Festival - sua l'anteprima de “La ragazza Carla” di Alberto Saibene, tratto dall'omonimo poema meneghino di Elio Pagliarani), fa eco ai rinnovati dibattiti sulle trasformazioni metropolitane. 
Nel cuore del suo quartiere da ribalta, tra i grattacieli di Piazza Gae Aulenti, spunta così “Panorama”, un ottagono in legno firmato da Davide Rampello al cui interno, in una sala senza sedute, con 16 videoproiezioni sincronizzate e a 360°, scorre un filmato di 15 minuti sull'Italia: 200 luoghi della penisola per illuminare un'altra cartografia culturale; paesaggi, città, interni.

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venerdì 11 settembre 2015

Fermata Milano

Può capitare di perdersi nella propria città. Anzi, è un luogo comune, un motivo ricorrente del vivere urbano. Fa il paio con la condizione di chi pospone la visita di un posto - casa-museo o cappella o giardino... - perché, si crede, ci sarà sempre tempo per colmar la lacuna. “È dieci anni che vivo qui e non sono ancora andato al Cenacolo!”. “Ah che pecca, occorre porre rimedio! Pensi che io non sono mai salita in cima alla torre Branca. Ma ci andrò, ah se ci andrò”. Poi un trasloco, un cambio-lavoro, un nipote e nulla, perduta per sempre l'occasione. Disorientano alcuni negozi scovati per caso dopo un disinvolto zigzagare festivo - a Milano è facile che accada in quella porzione di città stretta tra via Meravigli e via Torino: sulla soglia della botteguccia, dopo l'acquisto di due inutili e deliziosi utensili da cucina, l'indice a grattar la nuca: “Venivamo da destra o da sinistra?”. “Sai che non ricordo più?! Boh”. E via a cercar indizi del cammino fatto: una panchina senza un asse dello schienale, una rastrelliera brandizzata, un cartello stradale con graffito... E dire che a Milano ci si orientava senza nomi delle vie e senza civici - poi un'unica numerazione per l'intera città, a spirale, a cominciar da palazzo Reale n° 1. Mutevole città, mutevoli noi. È tutto un già via così o già via colà e un ex albergo di qui o ex albergo di là. Attraversare anfratti, curve, spazi è un inganno della logica: i luoghi sono disseminati da indizi di una realtà sepolta - nel più evidente dei casi - o assente - buona “solo” ad essere fantasticata. La destinazione delle parti di cui la città si compone si scolla dall'evidenze fisiche, architettoniche, d'arredo: come quelle locandine pubblicitarie che resistono alla pubblica veduta tra gli strappi dei manifesti più recenti. È inevitabile confondere, sbagliare. Siamo intempestivi. Talvolta restano le insegne d'un tempo a indicar esercizi di tutt'altra natura - il vintage piace, l'anticaglia è di moda e, se non cara, di necessità. Oppure resta la natura - un arbusto secolare o un filare d'alberi a cui il quartiere è affezionato senz'appello - e attorno un panorama mai avvertito prima. Ci si perde nella propria città; perché poi, verrebbe da chiedersi, le città di chi sono? e cos'è l'appartenenza? e come muta la percezione dell'appartenere? Le metropoli sono caravanserragli; per chi le attraversa e per chi ci staziona. Sulle reti dei trasporti globali si innestano micro e macro migrazioni umane; con le genti circolano usi, costumi, idee; a dorso loro si muove il mondo - strazi e gioie. Stazioni di posta, le città. Con gli umori di chi è stanco del lungo peregrinare e di chi trasuda quella speciale euforia che accompagna le partenze. Quel che io vedo, il mio vicino vede al contrario o in negativo o non vede o chissà cos'altro e non c'è topografia che tenga. Chiedere a un passante è poca cosa, l'odonomastica è un vezzo in punta di lingua, la mappa della città stretta nel pugno è un ansiolitico per turisti - e dove l'ambiente è arzigogolato è facile farsi raggirare da chi, gira che ti rigira, tira linee dritte. Meglio sfumare all'incrocio dei tempi e delle superfici. Interludi esistenziali, queste città d'oggi. Qui fu edificato, qui fu abbattuto e qui visse, qui morì. Persino alla rosa dei venti dell'Esposizione, tra cardo e decumano - già croce latina, già campo romano -, i padiglioni del mondo sono e non sono più. Incomincio a guardarli nel segno della loro assenza: progettati a moduli, presto smontati per destinarsi ad altri luoghi, il loro ingombro grava altrove e qui s'attenua.

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martedì 4 agosto 2015

Milano è...

Google non si limita a proferir responsi ma orienta persino le richieste. Sono sufficienti poche lettere digitate perché le pizie di Mountain View evochino parole, frasi spuntate e mezze verità. Vaticini? No, completamento automatico. Ovvero risultati generati da un algoritmo che elabora previsioni di ricerca in base, ad esempio, alla frequenza con cui altri utenti hanno cercato una parola. Query di Popolo, Query di Dio.

Pietro Minto ha di recente dedicato un articolo - “Le discriminazioni degli algoritmi”, La Lettura #191 - alla mappa dei pregiudizi ideata da Randal Olson, ricercatore bio-informatico presso l'Università della Pennsylvania. La mappa - regni la disambiguazione, al bando le sibille! - indica i principali aggettivi che gli utenti Google associano a ciascun Stato europeo. In breve Olson ha digitato su Google “perché l'Italia è così...?” e ha atteso che il completamento automatico facesse il resto. L'oracolo digitale ha divinato che l'Italia è un paese “razzista”, la Francia è “gay”, la Grecia “importante”, la Spagna “vuota”, la Polonia “povera”...

Insomma il vate dei Big Data svela, a conti fatti e numeri alla mano, aggettivi per nulla innocui; e in verità, ora come allora, oh sacra Delfi, sta a chi cerca, a chi interroga, a chi digita interpretare le predizioni, svelare le ambivalenze, indagare le ermeticità delle sentenze. E se l'Italia è così definita, mi son chiesto, quale combinazione di termini spetta a Milano?


Ho digitato “Milano è...”, ho premuto la barra spaziatrice e il completamento automatico ha suggerito, in ordine di apparizione, “bella”, “bellissima”, “bellissima ma non diteglielo”, “Expo”. Non convinto ho diteggiato ancora - contravvenendo forse alle regole del tempio - “Milano non è”, “Milano ha”, “Milano non ha”. Milano non è “cara”, non è “l'America”, non è “Milano”, non è “Milano Aldo Nove” (così titola il libro del poeta scrittore); Milano ha “il mare”, ha “un cielo blu seta”, ha “il depuratore”, ha “solo due colori”; Milano non ha “memoria”, non ha “scelta”, non ha “scelta testo” (riferendosi all'omonima canzone de I Ministri).

La città piace, è un climax d'innamoramento: bella, bellissima, bellissima ma non diteglielo - come titola un recente e intenso articolo proprio di Aldo Nove. Poi l'assenza d'acqua - il mare non c'è, i depuratori sì, navigli e Darsena non pervenuti - e l'azzurro - in cielo, di seta, e il grigio non è più di moda. In trasformazione: Milano non è Milano - e forse, così avvezza a cambiare, non lo è mai stata -, non è certo l'America, ma è senz'altro Esposizione Universale: centro del mondo, per una volta. Ma senza scelta né memoria. Chissà.

***

E Roma, termine urbano a cui, nonostante tutto, ogni città tende a confrontarsi? Roma è “tutta Roma” (come titola l'attuale piano per le periferie del Campidoglio), è “servita”, è “una bugia”, è “sporca”; Roma non è “una città come le altre. È un grande museo, un salotto da attraversare in punta di piedi” (parole di Alberto Sordi), non è “stata fatta in un un giorno” (saggezza popolare), non è “la mia capitale”, non è “soltanto un'entità geografica”; Roma ha “vinto”, ha “noi”, ha “il mare”, ha “vinto gladiatore” (grido esultante del generale Massimo, interpretato da Russell Crowe); Roma non ha “prezzo”, non ha “mai pianto”, non ha “mai pianto canzone” (come disse Dino Viola riferendosi alla Roma), non ha “sponsor”. Basta chiedere.

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lunedì 13 luglio 2015

Il paese della Cuccagna


Milano è una città a cui non manca niente, «c'è la donna nella Madonna e l'uomo nel Duomo» - persino la parola, Mediolanum, contiene l'universo: «tutte e cinque le vocali, che occupano ciascuna un posto in ogni sillaba». Sembra quasi che la sacra architettura ambrosiana cinga e contenga il mito laico di un'operosa discendenza meneghina; come se, spezzato il pane e versato il vino, dall'unione del D-uomo e della Ma-donna di Milano possa scaturire l'origine, a ufo - ad usum fabricae, o meglio a sbafo -, d'ogni ben di dio: fiumi di latte, fontane di Malvasia, ponti di fette di melone, “capponi arrosto che piovono dal cielo”, montagne di formaggio. «Che sia questo il paese della cuccagna?». Può darsi, tanto che a Milano, a legger tra le righe e a rievocar la fantasia di altri paesi di Bengodi ove “si legan le vigne con le salsicce”, «meglio che di gastronomia milanese si deve parlare di “civiltà alimentare”». Qui, all'ombra di quel marmo di Candoglia rassomigliante a zuccheri in pani, si è sempre mangiato e sempre si è bevuto. Nella seconda metà dell'Ottocento la città era tutta marmitte, casseruole, tegami: 261 osterie, 570 bettole, 475 negozi di liquori; due secoli prima le osterie rinomate erano già un’ottantina, dislocate attorno alle porte di Milano; appena poco fa, vuoi per gli Alemagna, vuoi per i Campari, vuoi per i Motta, era tripudio, era festa, era anche troppo; ed oggi che la città si erge a capitale di convivialità - le cene in bianco, i quadri di leccornie esposti in metrò, il mercato metropolitano, i campi, i cibi, le carte dell'Expò - se ciascuno dei diciassettemila esercizi di ristorazione ambrosiani apparecchiasse una settantina di coperti, l'intera città potrebbe uscire fuori a cena, tutti assieme. Primo, secondo, dolce e caffè.

In questo breve testo cito, perlopiù in modo esplicito, in ordine di apparizione: Stefano Bartezzaghi in “M. Una Metronovela”, Bonvesin de la Riva in “De Magnalibus”, Il mito del paese della Cuccagna” - immagini a stampa dalla raccolta Bertarelli, mostra in corso al Castello Sforzesco -, Alessandro Manzoni in “I promessi sposi”, Giovanni Boccaccio in “Decameron”, Alberto Savinio in “Ascolto il tuo cuore, città”, Lucia Bisi in “Nutrire Milano”, Paolo Mezzanotte in “Milano nel tempo e nella storia”, Emilio Giannelli in “L'album di Milano” illustrato.

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sabato 4 luglio 2015

Sentire, ascoltare /143

"Quale preciso significato ha questo regresso del pelo, contemporaneo al progresso della civiltà? Per assai tempo i costumi della «civiltà barbarica» imperarono in tutta Europa e fino da noi, cioè a dire nella sede stessa della civiltà «civile». Anche presso di noi la barba passava per un attributo di dignità, la faccia glabra era prerogativa dei camerieri, l'uomo con barba rappresentava il tipo del bell'uomo, dell'uomo forte. Poi, a poco a poco, la razionale civiltà latina cominciò a riconquistare i suoi diritti e,fatto notabile, la barba cominciò a morire quando il razionalismo cominciava a nascere. Il passaggio dalla barba come elemento protettivo alla barba come puro ornamento. e quindi alla faccia rasata, si ripete nell'evoluzione dell'architettura. Anche l'architettura cominciò con l'essere coperta e barbuta per necessità di difesa: palazzi che erano assieme fortezze. Poi questa necessità venne a mancare, ma l'architettura continuò a essere «barbuta» per ornamento: dal barocco al rococò. Ci si accorse infine che la barba dell'architettura era inutile e si arrivò all'architettura «rasata». Lo stesso avvenne nell'arredamento. dal salotto pieno di puf, tendaggi, cortine, brise-bises, canapè con falpalà e baldacchino, paralumi con la fustanella, ninnoli e chineserie, si passò al salotto attuale ove tutto risponde (o dovrebbe rispondere: il razionalismo degenera in estetismo - ma questo è un altro discorso) a ragioni di comodità e di logica. Si noti che il salotto «barbuto» era la ripetizione domestica del fasto e del sovrabbondante tanto caro alle civiltà barbariche, e non per nulla in quel salotto dominava l'orientalismo. Ora questo passaggio dell'architettura «barbuta» all'architettura «rasata», che altro è se non il passaggio dalla civiltà barbarica alla civiltà latina?".¹


¹ Il testo è contenuto in nota al seguente paragrafo di Ascolto il tuo cuore, città, Alberto Savinio, 1944. "Riconosco l'Ariosto dal ritratto che gli fece Tiziano pieno di barba e di capelli, fratello maggiore di quegli bei uomini tipo Chinina Migone che io feci in tempo a conoscere da bambino".

giovedì 2 luglio 2015

Riflessi

Non c'è passante che sappia resistere alla propria immagine riflessa. A Milano - si nota bene in corso Buenos Aires o in corso Vercelli - i viandanti fiancheggiano edifici, bar e negozi torcendo il collo verso le vetrine: per ravvivare il ciuffo, sistemare la camicetta o la postura, sbirciare alle proprie spalle - il rumore dei tacchi, il vociare di un gruppo, lo sputo di un uomo. 

L'effetto visivo è simile al rapido passaggio di un treno: fermo alla banchina della stazione, contemplo la mia silhouette vibrare a pinnacoli sui finestrini dei vagoni, di tanto in tanto risucchiata dalla luce che filtra dove i ganci di trazione si incontrano. Baluginii, riverberi oppure paccottiglie, ninnoli, leccornie.

Ci si specchia, vanità delle vanità, e ci si addentra nelle cose: gli occhi predano le porcellane, gli oggetti hi-tech, i tessuti, l'antiquariato: si penetra lo spazio, la profondità delle stanze a vista. Una commessa - lei dentro, noi fuori - ci osserva, indugia con lo sguardo sul prospetto che vetrina e vetrofanie concedono alla città. Basta un attimo e la merce esposta sei tu, viandante.

L'Esposizione Universale espone alla vista per definizione, mette in mostra, è una vetrina internazionale. Sul decumano, l'asse portante del sito, si svoltola in linea retta il mondo intero; i paesi partecipanti - padiglioni e delegazioni - si lasciano ammirare e a loro volta ammirano, riflettono gerarchie di potere, di conoscenza, di estetica, misurano la propria forza attrattiva. È un esercizio di osservazione, di vedo-non-vedo, di voyeurismo sì alimentare, ma anche sociale e politico. 

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martedì 23 giugno 2015

Lo spettro visibile

Lungo il perimetro dei chiusini, sul ciglio dei marciapiedi, negli interstizi edili, persino abbarbicati alle inferriate dei balconi germogliano, di tanto in tanto, sparuti ciuffi d’erba, esili ma tenaci steli di piante – centinodia, malva, mercorella. Si usa definirle erbacce ma è flora urbica varia, vivace e resistente biodiversità metropolitana. 

Quando adocchio un cespo di questi, immagino di sfilarlo come fosse il filo di un abito: giro dopo giro scucirei le strade, i sottopassi, i ponticelli, le gradinate, le chiese, i palazzi; l’intero ordito della città si sfilaccerebbe in un peloso cumulo d’erba cementizio e attorno a me si aprirebbe un’immensa distesa di terra. 

Si fa presto a notare il verde in città, fosse anche sterpaglia: è un limite cromatico che determina gli spazi, che riposa gli occhi, che illumina le architetture e le materie, le figure adiacenti e le sovrapposte. Milano è perlopiù raffigurata in tinta grigia - la nebbia, le industrie, le polveri sottili, gli uomini d’affari - ma il colore che riflette è più brillante, più vivace. 

A mia memoria, nel recente passato, la percezione della scala colori meneghina si è alterata quando il maestro Claudio Abbado, intervistato da Giuseppina Manin del Corriere della Sera (30 dicembre 2008), disse che sarebbe tornato a dirigere l’orchestra del Teatro alla Scala solo con «un cachet fuori dall’ordinario. Novantamila alberi piantati a Milano. Un pagamento in natura». Parole d’amore, e l’amor che move il sole e l’altre stelle, muove anche i milanesi. 

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martedì 9 giugno 2015

Mobilia

Da qui è come se guardassimo da una feritoia. Si scorgono un piccolo trapezio del Tribunale di Milano, un'ampia curvatura della Cà Granda, l'ospedale Maggiore, le nervature gotiche della Torre Velasca, il retro dell'Università degli Studi di Milano. Siamo alla Guastalla, giardino all'italiana appena fuori la cerchia dei Navigli, tra via Francesco Sforza e via san Barnaba. 

All'ombra dei suoi faggi - c'è persino una secolare catalpa, l'albero dei sigari - si ha l'impressione ci si possa appartare e al contempo misurare con la città; come se guardassimo fuori dalla finestra, con le dita tese a divaricare le listerelle sottili della veneziana. «La casa è una città in piccolo, e la città è una casa in grande» (Leon Battista Alberti) e qui, lungo la circonvallazione interna, casa e città in qualche modo coincidono.

C'è un'espressione che mi piace molto e che appartiene a Milano in modo stretto: arredo urbano; sottende quell'idea della fatica e degli sforzi che le famiglie compiono per completare l'addobbo di una stanza - un oggetto alla volta, per fare di casa uno spazio in cui è bello vivere, invitare amici, crescere i figli - e suggerisce senso di appartenenza a una comunità di strada, di palazzi, di facciate e cortili.

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Inventario spaziotempo

Il primo orologio pubblico d'Italia, uno dei primi d'Europa, fu installato nel 1309 sul campanile della basilica di Sant'Eustorgio, nei pressi dell'attuale Porta Ticinese di Milano. Un quarto di secolo dopo, il congegno di un secondo orologio a vista fu azionato sulla torre della chiesa di San Gottardo in Corte. Un rintocco di campana per ogni ora trascorsa, a partire dall'una di notte. Il quartiere fu presto rinominato “Contrada delle Ore” e i suoi abitanti - così da ravvisare nel passato l'origine di una moderna attitudine urbana - si abituarono, nasi all'insù e tempo permettendo, ad andare di fretta, di corsa e a perdifiato. 

Il tempo, il modo in cui è vissuto, percepito, scambiato, in qualche modo a Milano più che altrove, segna l'immaginario urbano, si fonde ai miti e ai simboli della città. Un parziale e sgangherato inventario di quel che avvicina Milano alla dimensione del tempo meriterebbe di menzionare, ad esempio, il Giro d'Italia - in città si arriva di volata, lanciati in corso Sempione su basculanti telai di biciclette, bolidi in carbonio sul pavé dell'ultima tappa -, il primo semaforo del Paese - le oscillazioni, i flussi, le accelerate si allineano, nel 1925, ai colori di un luminoso cilindro stradale installato all'incrocio di via Torino con via Carlo Alberto, l’attuale via Mazzini -, il futurismo - movimento e dinamismo sono muse di caotici artisti riunitisi in città a dorso di ruggenti centocavalli -, l'invenzione della schiscetta - altrimenti detta la nutrizione mobile (cit. Stefano Rolando) -, i claim degli aperitivi - su tutti, contro il logorio della vita moderna, indimenticato adagio che sottende una serie di situazioni, espressioni e condizioni del tempo meneghino: frenesia, traffico, c'è-coda, straordinari, produzione, orari-di-lavoro, turni, attàccati-al-tram, rapidità, attese, coincidenze, agende-fitte, calendari, deadline, dopo e apericena, pausa caffè, e così via -, la fondazione del Touring Club - ad opera di un gruppo di 57 velocipedisti -, il primo orologio elettrico e il primo impianto di orologi stradali - una sorta di rifondazione del mito -, il Duomo - di cui tutti ricordano, più d'altro, i 500 anni, ah il tempo!, che la Veneranda Fabbrica ha impiegato per costruirlo -, Düra minga - espressione dialettale nota ai più, e resa celebre da storici spot pubblicitari, la cui durata canonica (30 secondi) non mi stupirei se fosse invenzione di un milanese -, le Esposizioni Universali - la prima, del 1906, dedicata ai trasporti, alle vertiginose distanze abbattute dal progresso scientifico, e l'odierna, Expo Milano 2015, il cui sito espositivo si è concluso di corsa, contro il tempo, secondo precise scadenze indicate nel crono-programma, che tante attenzioni ha calamitato nel corso di un ostentato ed estenuante countdown.

Il tempo, però, non può che allungarsi o diluirsi nello spazio; e Milano, restia a mostrare la propria intimità - giardini segreti, porticati taciuti, cortili occulti, anfratti discreti, corti protette, androni sinistri -, ho come l'impressione che stia orientandosi, in questo immaginario piano cartesiano spaziotempo - oltre l'annoso e pur sempre vitale dibattito scientifico-letterario su centro e periferia, inclusione ed esclusione - verso la ri/scoperta dei luoghi in città, il ri/pensamento dello spazio pubblico, la ri/costruzione del tessuto urbano. 

Se lo spazio è «ciò che arresta lo sguardo, ciò su cui inciampa la vista: l'ostacolo: dei mattoni, un angolo, un punto di fuga» (Georges Perec, Specie di spazi), allora è necessario far correre gli occhi, osservare, annotare, registrare. Il ciclico rigenerarsi delle energie urbane, la congiuntura storico-sociale, l'Esposizione Universale hanno sensibilmente modificato le forme, i bordi, i rilievi, le dimensioni di una città (o almeno di alcune parti parte di essa) che già nella sua denominazione, Mediolanum - oh nomen omen! -, custodisce il concetto di spazio, l'idea di terra.

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Il racconto della città

Non esiste Esposizione Universale senza città che la ospiti. Da Londra 1851 - l'Italia non era ancora unita - a Shanghai 2010, le sorti dei grandi eventi a scala globale hanno incontrato i destini delle metropoli designate. Expo Milano 2015 - la locuzione adottata dal Bureau International des Expositions (BIE) è eloquente di per sé: il nome della città è la parola di mezzo, il perno lessicale - non fa eccezione, tanto più se, oggi più che allora, gli agglomerati urbani costituiscono le chiavi di volta delle nostre complesse architetture sociali.

I campanili, di pietra e di pensiero, che svettano alti, dentro e fuori le mura delle città, orientano ancora, e con rinnovata forza attrattiva, gli sguardi di chi attraversa gli spazi, reali e simbolici, delle metropoli: identità, usi, tradizioni, appartenenze vanno ridefinendosi lungo le strade di popolosi quartieri cittadini. Non è un caso, io credo, se in rete, sulle timeline dei social network - da Twitter a Instagram -, la possibilità di geolocalizzarsi, di segnalare la propria presenza, di raccontare e raccontarsi attraverso i luoghi in cui ci si trova, abbia assunto un valore pari, se non maggiore in taluni casi, alle parole che immettiamo nei circuiti digitali.

La città - nel 2030 quasi due terzi dell'umanità vivrà in sistemi urbani - è il tessuto narrativo dei nostri tempi. Non solo per flâneur 2.0, novelli Marco Polo e Kublai Khan, pionieri antropologi e romanzieri d'antan, ma anche per imprese e giunte, city users e imprenditori, cittadini e turisti. In questo contesto, e con alle spalle esempi di rilievo - si pensi alla Torino delle Olimpiadi invernali del 2006 -, la prossima Esposizione Universale, il cui sito è sorto ai confini della città, quasi a significare un'estensione fisica e geografica delle mire urbane, assume una posizione di rilievo, costituisce un tassello importante del racconto urbano.

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lunedì 25 maggio 2015

Sentire, ascoltare /142

Mi pare di conoscerla, dove l'ho vista? Ah sì, ora ricordo. La saluto? E se non mi riconoscesse? Perché dovrebbe ricordarsi di me. Si avvicina, sono una cinquantina di passi. Beh, io mi ricordo di lei, lei dovrebbe ricordarsi di me; non sono mica un genio della memoria visiva. Siamo quasi appaiati. Non mi guarda, forse mi ha riconosciuto e fa finta di non vedermi. Forse, invece, è solo distratta. Eccola. «Ciao!». Non mi ha riconosciuto. 

***

«Alfonso, ma dove vai?! Siediti qui vicino a me».
«Taci una buona volta, Maria! Preferisco stare qui, si sta più larghi».
«Non essere maleducato, Alfonso, davanti a tutti».
«Uff».
«Fai come vuoi».

«Mi scusi, signor Alfonso, la carrozza sarà a breve stracolma, e dove lei si sente più largo le mancherà il fiato. Questo treno, poi, potrebbe impiegare giorni per arrivare a destinazione; le consiglio di sedersi vicino a chi le vuole bene».

***

Non c'è neanche un posto, vorrei sedermi. Mmm, vediamo, lui! Sono certo che alla prossima scende. Certo da quassù è sgradevole, che odore di balsamo sudato. Ho come l'impressione che sotto il getto caldo del soffione della doccia, con le mani nei capelli, i polpastrelli impastati dallo shampoo, quest'uomo provi la stessa sensazione che provo io quando, nel lavello, sotto l'acqua del rubinetto - mai tiepida come si vorrebbe che fosse -, le dita aderenti all'acciaio smaltato della pentola, sfrego perché l'unto scivoli via e invece non scivola. E come io mi chiedo se l'unto sia così ostinato per colpa della spugna o del detersivo-piatti gel o della pentola o dell'acqua o della mia scarsa applicazione, suppongo che quel tale, una volta appurato che i capelli continuano ad appiccicare anche dopo averli ben fonati, si chieda se sia colpa delle sue dita o dello shampoo o della cute o dell'acqua o della sua scarsa applicazione. Però è sceso.



martedì 12 maggio 2015

Sentire, ascoltare /141

Ha varcato la soglia mobile dell'iper di quartiere: quindici casse, tredici cassiere e due cassieri, trecento carte strisciate ogni ora, trentacinque carrelli circolanti, dieci corsie, dodicimila prodotti esposti. Seleziona frutta e verdura - guanto, sacchetto, bilancia, cestino -, afferra una pianta grassa nana, la ripone nel cestino, si immette nel reparto latticini. Indugia sulle mozzarelle di bufala. Amnesie, fisse, ripensamenti. Sono disposte su 3 ripiani di un unico settore del banco frigo. Ciò che meglio vedo è ciò che vogliono che io acquisti. Ce ne sono da 200, 250, 300 e 500 grammi. Il peso di alcune si riferisce al prodotto sgocciolato, il peso di altre è comprensivo del liquido salva-freschezza. In taluni casi il peso è relativo ad una sola mozzarella, in talaltri ad una serie imprecisata di bocconcini. Ci sono confezioni a cestello, in plastica dura, a vaschetta; confezioni singole - in bustine - e multiple - in bustoni e poi in bustine; confezioni da aprire con la forbice, con un pratico taglio già accennato, che possono richiudersi. Alcune mozzarelle navigano in imballaggi che consentono di osservare l'interno - trasparenti, artigianali, rustici - e altre che possono solo immaginarsi. Il reparto dispone di 6 differenti marche: aziendali, appena lanciate sul mercato, ammiccanti al bio o alla cultura km0, da discount, sconosciute. Ciascuna di esse ha una propria linea di colori, di icone, di forme, di scritte. Le etichette rimandano a una serie imprecisata di città - di produzione, di distribuzione e di confezionamento. Ogni pezzo ha un proprio prezzo. La merce nascosta in fondo allo scaffale scade dopo. Capovolge tutti i prodotti in cerca del più fresco. Da consumarsi entro il 15, da consumarsi entro il 16. Il prezzo varia di confezione in confezione, di giorno in giorno, forse anche di ora in ora. C'è sempre un prodotto il cui indicatore di codice e di costo è mancante o collocato sulle coste dei ripiani adiacenti. La cifra, mai piena, sempre decimale, va ponderata col peso, valutata a seconda della presenza di grassi aggiunti e coloranti, mediata al ricordo sensoriale che si rievoca lì per lì, confrontata alla classifica delle grandi aziende alimentari che rispettano ambiente e lavoratori. Alcuni prodotti sono in promozione. Uno sconto eccessivo nasconde una trappola. Sconti per i possessori di carta blu o per i possessori di carta verde, ritagliati sulle confezioni precedentemente acquistate o digitati sui totem disposti vicino alle casse, del 40% o del 25%. Sconti che concedono punti premio, sconti che si attivano solo se prendi 2 prodotti uguali, sconti immediati, sconti cumulativi. Sceglie, prosegue. Mette nel cestino la pasta, il pomodoro, la carta igienica, un barattolo di olive snocciolate, il pane. Cerca la cassa più libera, si mette in fila, prende il separatore di cassa, posa i prodotti sul rullo. Saluta, chiede un sacchetto, passa la carta fedeltà, la carta prepagata, imbusta e varca la soglia mobile dell'iper di quartiere.

lunedì 27 aprile 2015

Sentire, ascoltare /140

Non dico un discobolo ma quasi. Come una di quelle copie marmoree nei musei: istantanee di un gesto intenso: pura tensione: i muscoli, le vene, le vesti, la postura. Il cane è già altrove, attirato da odori vicini o dai suoi simili all'orizzonte. Il padrone gli dà le spalle, sfila il sacchetto dal rocchetto del guinzaglio, lo impugna e lo rivolta sulla mano come fosse un guanto del banco verdura del supermercato. Divarica appena le gambe, flette le ginocchia, piega il busto in avanti; un braccio asseconda la linea tesa della briglia del cane, l'altro è flesso verso terra, poco a ridosso dei piedi. Ed ecco la posa scultorea, il monumento che andrebbe eretto nel giardinetto più “pet” della città: la mano insacchettata affonda nella merda del cane e le dita stringono; con tutto il senso civico, l'orgoglio, il disgusto possibili.

domenica 22 marzo 2015

Sentire, ascoltare /139

Ieri mattina, al banco pane del supermercato, ho staccato il ticket dal distributore eliminacode - quello rosso, a chiocciola - e ho letto il numero: 00. Ho sentito come un tuffo al cuore. Io? Proprio io? Mi sono guardato attorno, certo che sarebbe accaduto qualcosa. Pensavo scendessero dall'alto palloncini bianchi e blu vergati con la S aziendale, che lavoratori e clienti iniziassero ad applaudire e che il capo reparto arrivasse sorridente con un assegno di un metro per due da consegnare al vincitore, il sottoscritto. Ma non è successo nulla. Allora ho avuto un altro tuffo al cuore. Ho pensato che il panettiere non avrebbe mai chiamato il numero 00 e che sarebbe passato dal 99 allo 01. Poi ha chiamato. “Zero?”. “Io. Due bastoni”, “Altro?”, “Basta così, grazie”.

domenica 15 marzo 2015

Sentire, ascoltare /138

E poi, tra poche settimane, andremo a cercar frescura su quei tratti di prato dei parchi in città, laddove ora, ancora d'inverno - dove ombra batte più forte -, il manto erboso è screziato da neve minuta, scesa giorni prima e qui e là residua, resiliente, ghiacciata; a legar le stagioni, a indicare il freddo che è stato e il caldo che sarà.

venerdì 6 marzo 2015

Sentire, ascoltare /137

Di sera, quando gli schermi dei pc appena spenti riflettono, d'improvviso e per pochi istanti, le immagine opache di migliaia di mezzibusti seduti alle scrivanie di casa, l'umanità, velata da impronte digitali e polveri magnetiche, trasecola al proprio cospetto.

lunedì 16 febbraio 2015

Sentire, ascoltare /136


Explog, premio per blogger dedicato a Expo Milano 2015 - da me ideato, e curato assieme a Milano ODD -, apre i battenti della sua seconda edizione. Da oggi, lunedì 16 febbraio, e fino al 31 marzo, chi vorrà esprimere sul proprio blog un'idea di città in relazione alla prossima Esposizione Universale è titolato a candidarsi vincitore del concorso.

Il primo classificato otterrà la nomination come “miglior articolo dell’anno” ai Macchianera Italian Awards 2015 - #MIA15 -, che saranno assegnati nel corso della prossima Festa della Rete, manifestazione ideata e diretta da Gianluca Neri. Il secondo classificato potrà partecipare al workshop della Scuola Holden “Scrittura digitale - Fondamenti della scrittura sul web” (13 e 14 giugno) tenuto da Giorgio Fontana, autore e vincitore del Premio Campiello 2014, presso la Scuola Holden fondata e presieduta da Alessandro Baricco.

Non importa di che natura sia il blog - di cucina, di letteraratura, d'attualità, … -, su quale piattaforma sia ospitato - Wordpress, Tumblr, Blogger, … -, in quale parte d'Italia sia stato aperto; ciò che davvero ha valore ai fini di Explog sono l'abilità di figurare una città nuova, la capacità di raccontare un evento che appartiene a tutti, l'attitudine a cogliere, e a comunicare, il cambiamento.

I post partecipanti saranno valutati per stile, originalità, forza evocativa e capacità critica - qui il bando. In bocca al lupo.

martedì 13 gennaio 2015

Aforismi, neologismi e bestialità /46

Alcune espressioni, frasi fatte, parole-mania dalle quali vorrei liberare il mio orizzonte social-linguistico.


1. Sveglia!!11!! e Fate girare!!1!!
Il concetto ormai è chiaro. Potremmo passare oltre?!!1!?

2. Meraviglia
Chi si meraviglia troppo è un boccalone. Si preferisca un mirabile e discreto “oh!”.

3. (spiegato bene) 
Suona un po' come le etichette “nichel free” sui prodotti che, per legge, non possono contenerne.

4. #LefrasiTutteInHashtag
Fa molto giovane ma anche molta tristezza.

5. Hipster
Non se ne può più, che barba!

6. Una certa sinistra
Dopo decenni di uso ed abuso, l'espressione 'una certa sinistra' può definirsi 'una sinistra certa'. Avanti!

7. Gianni Morandi
Perché non è più un uomo, ma un immacolato concetto a 32 denti.

8. Eh (a fine frase), Diciamo (come intercalare), No vabbè, Ma anche meno, Genio (seguito da citazione)
No vabbè, genio! Ma anche meno, diciamo...

9. Vi avverto, è spoilerato
L'inglesismo è ben più antipatico del significato che esprime.

10. Le dieci cose che...
Potremmo limitarci a una cosa sola (spiegata bene).