venerdì 11 settembre 2015

Fermata Milano

Può capitare di perdersi nella propria città. Anzi, è un luogo comune, un motivo ricorrente del vivere urbano. Fa il paio con la condizione di chi pospone la visita di un posto - casa-museo o cappella o giardino... - perché, si crede, ci sarà sempre tempo per colmar la lacuna. “È dieci anni che vivo qui e non sono ancora andato al Cenacolo!”. “Ah che pecca, occorre porre rimedio! Pensi che io non sono mai salita in cima alla torre Branca. Ma ci andrò, ah se ci andrò”. Poi un trasloco, un cambio-lavoro, un nipote e nulla, perduta per sempre l'occasione. Disorientano alcuni negozi scovati per caso dopo un disinvolto zigzagare festivo - a Milano è facile che accada in quella porzione di città stretta tra via Meravigli e via Torino: sulla soglia della botteguccia, dopo l'acquisto di due inutili e deliziosi utensili da cucina, l'indice a grattar la nuca: “Venivamo da destra o da sinistra?”. “Sai che non ricordo più?! Boh”. E via a cercar indizi del cammino fatto: una panchina senza un asse dello schienale, una rastrelliera brandizzata, un cartello stradale con graffito... E dire che a Milano ci si orientava senza nomi delle vie e senza civici - poi un'unica numerazione per l'intera città, a spirale, a cominciar da palazzo Reale n° 1. Mutevole città, mutevoli noi. È tutto un già via così o già via colà e un ex albergo di qui o ex albergo di là. Attraversare anfratti, curve, spazi è un inganno della logica: i luoghi sono disseminati da indizi di una realtà sepolta - nel più evidente dei casi - o assente - buona “solo” ad essere fantasticata. La destinazione delle parti di cui la città si compone si scolla dall'evidenze fisiche, architettoniche, d'arredo: come quelle locandine pubblicitarie che resistono alla pubblica veduta tra gli strappi dei manifesti più recenti. È inevitabile confondere, sbagliare. Siamo intempestivi. Talvolta restano le insegne d'un tempo a indicar esercizi di tutt'altra natura - il vintage piace, l'anticaglia è di moda e, se non cara, di necessità. Oppure resta la natura - un arbusto secolare o un filare d'alberi a cui il quartiere è affezionato senz'appello - e attorno un panorama mai avvertito prima. Ci si perde nella propria città; perché poi, verrebbe da chiedersi, le città di chi sono? e cos'è l'appartenenza? e come muta la percezione dell'appartenere? Le metropoli sono caravanserragli; per chi le attraversa e per chi ci staziona. Sulle reti dei trasporti globali si innestano micro e macro migrazioni umane; con le genti circolano usi, costumi, idee; a dorso loro si muove il mondo - strazi e gioie. Stazioni di posta, le città. Con gli umori di chi è stanco del lungo peregrinare e di chi trasuda quella speciale euforia che accompagna le partenze. Quel che io vedo, il mio vicino vede al contrario o in negativo o non vede o chissà cos'altro e non c'è topografia che tenga. Chiedere a un passante è poca cosa, l'odonomastica è un vezzo in punta di lingua, la mappa della città stretta nel pugno è un ansiolitico per turisti - e dove l'ambiente è arzigogolato è facile farsi raggirare da chi, gira che ti rigira, tira linee dritte. Meglio sfumare all'incrocio dei tempi e delle superfici. Interludi esistenziali, queste città d'oggi. Qui fu edificato, qui fu abbattuto e qui visse, qui morì. Persino alla rosa dei venti dell'Esposizione, tra cardo e decumano - già croce latina, già campo romano -, i padiglioni del mondo sono e non sono più. Incomincio a guardarli nel segno della loro assenza: progettati a moduli, presto smontati per destinarsi ad altri luoghi, il loro ingombro grava altrove e qui s'attenua.

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