martedì 4 agosto 2015

Milano è...

Google non si limita a proferir responsi ma orienta persino le richieste. Sono sufficienti poche lettere digitate perché le pizie di Mountain View evochino parole, frasi spuntate e mezze verità. Vaticini? No, completamento automatico. Ovvero risultati generati da un algoritmo che elabora previsioni di ricerca in base, ad esempio, alla frequenza con cui altri utenti hanno cercato una parola. Query di Popolo, Query di Dio.

Pietro Minto ha di recente dedicato un articolo - “Le discriminazioni degli algoritmi”, La Lettura #191 - alla mappa dei pregiudizi ideata da Randal Olson, ricercatore bio-informatico presso l'Università della Pennsylvania. La mappa - regni la disambiguazione, al bando le sibille! - indica i principali aggettivi che gli utenti Google associano a ciascun Stato europeo. In breve Olson ha digitato su Google “perché l'Italia è così...?” e ha atteso che il completamento automatico facesse il resto. L'oracolo digitale ha divinato che l'Italia è un paese “razzista”, la Francia è “gay”, la Grecia “importante”, la Spagna “vuota”, la Polonia “povera”...

Insomma il vate dei Big Data svela, a conti fatti e numeri alla mano, aggettivi per nulla innocui; e in verità, ora come allora, oh sacra Delfi, sta a chi cerca, a chi interroga, a chi digita interpretare le predizioni, svelare le ambivalenze, indagare le ermeticità delle sentenze. E se l'Italia è così definita, mi son chiesto, quale combinazione di termini spetta a Milano?


Ho digitato “Milano è...”, ho premuto la barra spaziatrice e il completamento automatico ha suggerito, in ordine di apparizione, “bella”, “bellissima”, “bellissima ma non diteglielo”, “Expo”. Non convinto ho diteggiato ancora - contravvenendo forse alle regole del tempio - “Milano non è”, “Milano ha”, “Milano non ha”. Milano non è “cara”, non è “l'America”, non è “Milano”, non è “Milano Aldo Nove” (così titola il libro del poeta scrittore); Milano ha “il mare”, ha “un cielo blu seta”, ha “il depuratore”, ha “solo due colori”; Milano non ha “memoria”, non ha “scelta”, non ha “scelta testo” (riferendosi all'omonima canzone de I Ministri).

La città piace, è un climax d'innamoramento: bella, bellissima, bellissima ma non diteglielo - come titola un recente e intenso articolo proprio di Aldo Nove. Poi l'assenza d'acqua - il mare non c'è, i depuratori sì, navigli e Darsena non pervenuti - e l'azzurro - in cielo, di seta, e il grigio non è più di moda. In trasformazione: Milano non è Milano - e forse, così avvezza a cambiare, non lo è mai stata -, non è certo l'America, ma è senz'altro Esposizione Universale: centro del mondo, per una volta. Ma senza scelta né memoria. Chissà.

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E Roma, termine urbano a cui, nonostante tutto, ogni città tende a confrontarsi? Roma è “tutta Roma” (come titola l'attuale piano per le periferie del Campidoglio), è “servita”, è “una bugia”, è “sporca”; Roma non è “una città come le altre. È un grande museo, un salotto da attraversare in punta di piedi” (parole di Alberto Sordi), non è “stata fatta in un un giorno” (saggezza popolare), non è “la mia capitale”, non è “soltanto un'entità geografica”; Roma ha “vinto”, ha “noi”, ha “il mare”, ha “vinto gladiatore” (grido esultante del generale Massimo, interpretato da Russell Crowe); Roma non ha “prezzo”, non ha “mai pianto”, non ha “mai pianto canzone” (come disse Dino Viola riferendosi alla Roma), non ha “sponsor”. Basta chiedere.

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