domenica 30 settembre 2012

Sentire, ascoltare /57

La città è intervallata da alcuni luoghi di fastidio: le code alle poste e alle casse dei supermercati, gli ingorghi d'auto, la sala del medico di famiglia, le banchine, alcune pastoie burocratiche, le pensiline, i gate, i cancelli non ancora aperti, i tragitti coi mezzi pubblici, la fila ai tornelli, i caselli, le obliteratrici, il semaforo rosso e i passaggi a livello. 

I luoghi di fastidio sono rituali collettivi per affermare una comune appartenenza allo spazio urbano; lamentele e indignazione sono apprezzata merce di scambio nel mercato del pubblico dibattere.

Non è possibile attendere così tanto - Ha ragione signora, ogni volta è la stessa storia * A quest'ora del giorno non ci si muove più - Lo dicevo io che sono degli inetti  * Due ore per pagare una bolletta - Fosse per ritirare lo stipendio ancora ancora, ma per pagare!

Tuttavia, a ben vedere, i luoghi di fastidio sono vitali spazi d'attesa: piccole riserve urbane per cittadini indaffarati: valvole di sfogo: privilegiati punti d'osservazione: attimi di riflessione su cose e persone.
Alcuni segni, simili a nevrosi e malattie, dimostrano proprietà curative e salubri virtù di questi luoghi.

Dal finestrino del tram, spiando nell'abitacolo di un'utilitaria, si sorprende un solitario autista che scuote il capo. Sul sedile accanto al proprio, in metropolitana, una donna, d'un tratto, sorride. In coda all'edicola un uomo in gessato nero si morde il labbro come a disapprovare qualcosa. Un giovane sudamericano, alla fermata del bus, osserva con interesse l'erbaccia che ha bucato il cemento. Un altro liscia la barba e borbotta tra sé e sé. Una donna in tailleur, nella sala d'attesa di una Asl, pare ripetere una conversazione appena avuta. Un signore allampanato, al tabaccaio, è colto nel mentre esprime il suo esprit d'escalier. Una studentessa, seduta ad uno scalino di un palazzo non ancora aperto, annota alcuni appunti su un taccuino. 

I luoghi d'attesa sono case di cura, parole di conforto, zone di ristoro mentale.

mercoledì 26 settembre 2012

Sentire, ascoltare /56


La gabbia grafica è uno schema che definisce gli spazi in cui si collocano testi e immagini. I pubblicitari, sulla pagina, curano proporzioni e ordinano elementi per veicolare il messaggio che intendono comunicare: gli ingombri sono disposti in modo che ogni cosa sia chiara ed efficace.

Il piano della città è simile ad una gabbia grafica le cui linee ciascuno tratteggia, nel corso della propria esistenza, per definire sensi personali e connettere conoscenze collettive. Allunghiamo proiezioni su cose: case, bar, incroci, insegne, sale cinematografiche, campi da calcio: e su persone; ingombriamo caselle urbane di continuo.

A differenza dei pubblicitari, però, non conosciamo formato ed estensione del foglio, siamo sprovvisti di obiettivi comunicazionali, ignoriamo il messaggio che veicoliamo attraverso gli spazi urbani. Ogni cosa è ben definibile solo a posteriori, quando il tempo a disposizione per sistemare, cambiare e ordinare i significati è ormai esaurito.

I ricordi sono il metro con cui è possibile capire le dinamiche grafiche che regolano la vita urbana. 
L’edicola in cui si è acquistato il primo album di figurine non è altro. La tettoia sotto cui si è dato il primo bacio non è altro. La via in cui si è fatto un incidente non è altro. Il citofono della prima casa che si ha abitato non è altro. Così per le persone.

Sono luoghi ingombrati una volta per sempre -segnati nello spazio e ancorati all’intimo di chi li ha vissuti. Non è possibile capirlo nell’immediato -nel momento in cui, senza averne coscienza, si allungano le nostre proiezioni.

Nel ricordo -che arriva solo dopo- realizziamo le proporzioni, visualizziamo gli elementi, interpretiamo i segni, percorriamo le linee della gabbia grafica che si sovrappongono al nostro personale piano urbano. A distanza di anni l’edicola delle figurine, la tettoia del bacio, la via dell’incidente, il citofono di casa non sono altro.

sabato 22 settembre 2012

Aforismi, neologismi e bestialità /27


Economie nomadi. 

Lungo le vie dei centri storici italiani, la verticalità degli spazi si apre ai passanti attraverso le dita di venditori ambulanti pachistani e bengalesi. Tra pollice e indici scuri di emigranti asiatici si allungano elastici luminosi che scoccano nel cielo a raggiungere altezze impressionanti. 

Seguire con lo sguardo il volo degli elastici è una tentazione a cui pochi possono resistere. L'elastico schizza in alto, ben oltre la visuale di quanti sono per strada, e scende poco a poco, con moto proprio delle foglie che piroettano adagio dai rami verso terra.

Chi osserva il fenomeno, però, non ha interesse a seguire la discesa dell'elastico; piuttosto è intento a trovare un termine solido, naturale e architettonico, per capire quanto effettivamente l'elastico si sia spinto in alto, nella città. 

Ha superato il quinto piano. Si è impigliato tra le fronde di quel sempreverde. Ha quasi raggiunto la guglia del duomo. 

L'elastico -e la fionda con cui si innesca il lancio- trascina i passanti ai piani alti dello spazio urbano e impone nuove riflessioni: geometrie e dettagli: cariatidi, omenoni, capitelli, gargolle, doccioni, gronde, tegole. 

Altre volte è il panorama umano a destare interesse. 
Tra tenda e tapparella, dietro il vetro di una finestra di un sesto piano, si scorge la silhouette di un uomo che osserva i passanti sotto casa; una coppia di anziani -gambe ombreggiate da una ringhiera in ferro e volti nascosti da una fila di fioriere- riposa e prende aria su due sedie in alluminio; una ragazza si stringe tra muro e stendino del proprio verone per fumare una sigaretta -mora e occhi verdi, è intenta a buttar fuori dalla bocca il fumo senza che si infili in casa, sottile e inarrestabile, attraverso spifferi e spiragli che tra le ante semichiuse fischiano col vento.

*** 

L'elastico non è solo volàno di una riflessione urbana ma anche, e forse più, simbolo di un'economia che mi piacerebbe chiamare nomade

I venditori ambulanti che fiondano l'elastico in aria sono, perlopiù, bengalesi e pachistani. Ovunque essi si trovino -Roma, Milano, Parigi, Istanbul, Berlino- hanno con sé fionda ed elastico. 

Verrebbe da pensare che la merce esiste in un luogo se nel medesimo luogo esistono determinati venditori: la fionda con elastico -senza sollevare la questione del racket- si può acquistare se a venderla ci sono pachistani e bengalesi -non altri

Non significa che le merci da loro vendute siano ideate e costruite nei rispettivi paesi di origine. Piuttosto indica un'economia strettamente connessa al venditore -lui, non un altro

Il nomadismo dei venditori ambulanti o la loro espansione, in piccole comunità, su una più ampia porzione di territori, è condizione necessaria e sufficiente perché esista una specifica economia. 

Con ciò mi vien da pensare che peculiarità di culture, saperi ed economie non siano legate a luoghi e a persone che identifichiamo coi luoghi, ma sempre più a persone che di alcuni luoghi sono, coscientemente o meno, espressione. 
L'economia nomade -la fionda e l'elastico- è tra i più vivi paradigmi della contemporaneità.

mercoledì 12 settembre 2012

Sentire, ascoltare /55

La città è un brusio pulviscolare nel quale piroettano alcuni suoni ricorrenti: il clacson, il passaggio del tram sulle rotaie, le suonerie dei cellulari, i freni del motore, il segnale acustico dei semafori per i pedoni, lo scampanellio delle bici quando passano sul basolato lavico irregolare. 

Le vibrazioni sonore si propagano lungo una duplice direzione sensoriale: nei piani pubblici della città e negli spazi intimi delle proprie orbite auricolari. 

Nel primo caso i suoni definiscono una sorta di codice dell'udibile e determinano il sentire collettivo; nel secondo caso i suoni penetrano nelle psicologie personali e muovono nevrosi, isterismi e ansie proprie della modernità. 

In un caso ai suoni corrisponde la presenza dei corpi che li emettono; nell'altro i corpi che confluiscono nel clangore urbano non esistono. Sento squillare il cellulare ma è spento nel taschino, ho la percezione che un tram sia nelle vicinanza ma non c'è, avverto lo scampanellio della bici ma la strada è deserta. 

La compresenza di questi due regni dell'esistente è segno - seppur piccolo e limitato al mondo dell'udibile - di una complessa e delicata costruzione sociale. 
L'impalcatura urbana, infatti, in quest'ottica sonora, parrebbe essere retta da migliaia di contrafforti - uno per ogni cittadino - che assorbono colpi e deviano forze disgreganti. Se i contrafforti cedono, se troppi suoni affondano nelle ansie e nelle nevrosi umane, la città crolla e tace.

domenica 9 settembre 2012

Sentire, ascoltare /54

Dispiegata su un ampio tavolo Ikea la cartina di Milano, ho immaginato di sovrapporre ad essa un foglio di carta da lucido che riportasse i tragitti da me compiuti negli ultimi tempi. A questo lucido ho ammesso di sovrapporne altri che indicassero i tragitti di quanti conosco. Su di essi ho posato, infine, uno a uno, i percorsi dei miei concittadini. 

Sulla superficie del tavolo, in poco tempo, ho visualizzato un volume quadrangolare immenso: ad osservarlo dai lati pareva un monolite imperscrutabile; dall'alto di una gru, invece, la mappa di Milano era ancora visibile seppur in un chiaroscuro di linee e sagome. Alcuni quartieri parevano più densi di altri, tragitti ben delineati si alternavano a percorsi opachi, appena tracciati, quasi inesistenti.

Ho pensato, dunque, di mischiare i lucidi, di cambiarne l'ordine di sovrapposizione. Dai lati del tavolo il volume quadrangolare non si alterava -immutata la consistenza, inscalfibile la materia; dall'alto, invece, la città assumeva nuova forma e inedite sembianze. I quartieri prima più densi erano ora meno scuri, i tragitti nascosti acquistavano nitidezza, le strade meno battute erano, d'un tratto, le più frequentate.
Ho ripetuto l'operazione migliaia di volte ottenendo mai un risultato simile all'altro. 

La città è un solido di cui, però, al suo interno, ciascuno è abituato ad osservarne una sola sezione. Con un piccolo sforzo di immaginazione si potrebbe scorgere, alzando e abbassando gli occhi verso i lucidi che ci precedono e ci seguono, attraverso la vita degli altri, una città sconosciuta. 

Ieri la strada davanti casa era la via di fuga di un ladro di biciclette, oggi è il primo appuntamento di due innamorati, domani sarà il caffè prima di un colloquio di lavoro.

mercoledì 5 settembre 2012

Sentire, ascoltare /53

Nei dintorni di una luce gialla, tra citofono, zerbino e porta di ingresso di un palazzo isolato, nella campagna attorno a Milano, di notte, mi è parso di cogliere un qualcosa della nostra umanità. 

Alcuni moscerini ronzavano attorno al faretto, di tanto in tanto sbattendoci contro; due lucciole gravitavano a cerchi più ampi; altri insetti seguivano, poco più lontano, traiettorie a me non ben comprensibili; un ragnetto ondeggiava a debita distanza dalla luce -dove soffitto e muri formano l'angolo; e tre scarafaggi si muovevano a piccoli scatti, quasi impantanati tra le fibre di cocco del nettapiedi. 

Alcuni di questi piccoli animali seguivano, quasi a bruciarsi, le proprie illusioni fluorescenti; ad altri, per partecipare al folle raduno, bastavano le illusioni altrui; altri ancora, senza dir nulla, in solitaria posa, attendevano di far delle illusioni il proprio pasto; i restanti, che illusioni non avevano, faticavano a portare il proprio peso.

martedì 4 settembre 2012

Sentire, ascoltare /52


Simili ad api operaie o a formiche soldato il nostro ruolo, nel mondo che ci ospita, è di manutentori di mura. È una professione che ben poco siamo consapevoli di svolgere e che è nobile e di vitale importanza. Quale che sia l'abitazione in cui viviamo, nella maggior parte dei casi, la sua esistenza precede la nostra. La nostra dipartita anticipa di gran lunga il crollo dei muri.

Ci avvicendiamo, di generazione in generazione, affinché i palazzi siano saldi e il loro splendore sia vivo. Ci premuriamo che le componenti edili resistano alle nostre mode, che le materie siano preservate dalle nostre economie. Cosa portiamo via da un luogo che abbiamo attraversato se non il ricordo di costruzioni, murature, mattoni?

Fanno capolino dalle finestre i nostri volti, se non i nostri quelli di coloro che prima di noi hanno abitato la piccola metratura che attraversiamo nel corso di un'esistenza e se non quelli, ancora, quelli di uomini di cento e mille anni fa. Manutentori di mura che legano la storia con ferro, cemento e calce. Questo siamo.

Non pare così che siano i palazzi gli abitanti della città? Non pare così che dalla notte al mattino ci sentiamo diversi perché diversa si è fatta la città pur senza che noi abbiamo potuto accorgercene? 
Se così fosse dovremmo soffermarci con più attenzione sui volti dei passanti -api operaie e formiche soldato della metropoli- perché le piccole sfumature fisiognomiche sono espressione, crepe o stucco, di una più immensa costruzione sociale.

domenica 2 settembre 2012

La guida Sbagliata /7

Il bar esprime, in qualche modo, la natura del suo proprietario: gusti musicali e d'arredo, abitudini di lettura, pulizia, esigenze cromatiche e olfattive, scelte alcoliche, di qualità e quantità, inclinazione a socializzare e molto altro. Tuttavia il barista nulla può contro l'invasione sentimentale e caratteriale della sua clientela. Può tentare una resistenza ma sa, in cuor suo, che prima o poi dovrà cedere ai venti della città. 

Il bar è un luogo, in una certa misura, privato ma soprattutto è pubblico. Quale sia il grado di tale appartenenza alla collettività urbana è, però, cosa di difficile comprensione. Tanto che, a ben vedere, il bar sembra un luogo più privato che pubblico. 

Mi spiego. I frequentatori, a lungo andare, sono sempre gli stessi. I gomiti che si consumano lungo il bancone si conoscono gli uni gli altri; i volti, le abitudini orarie, lo stile vestiario dei clienti sono noti a tutti, all'interno del bar. Esiste, infine, una rituale investitura del barista al cliente che conclama l'appartenenza di quest'ultimo alla comunità di gente che frequenta il bar. 
La formula ufficiale è la seguente: 

“Il solito?”. 
“Sì, dai. Va bene”. 

Il patto tra cliente e proprietario è stato suggellato. Il barista accetta la presenza dell'abitudinario avventore, accordandogli di fatto il potere di influenzare, con la sua presenza fisica, l'atmosfera del bar. Il cliente, dal canto suo, aderisce a uno stile, a un modo di fare e di pensare, proprio del proprietario e della comunità già presente al suo arrivo all'interno del locale. 
Dunque il bar è un luogo, come si è potuto vedere, né pubblico né privato. La sua materia è data da componenti private e pubbliche che, tuttavia, raggiungono un equilibrio non chiaramente definibile. 

Il bar, poi, subisce, nel corso del tempo, un naturale cambiamento. Ne dettano il ritmo le stagioni, l'evoluzioni personali degli uomini, le mode alcoliche e i costumi; nonché gli screzi, le delusioni d'amore e i prezzari. Insomma il bar cambia, vive, evolve o involve. 

Che sia bar sinonimo di democrazia -certo minima, diminuita e in tal caso diluita- mi pare, a questo punto e in quest'ottica strampalata, cosa vera e indubitabile. E il suo fragile equilibrio va preservato, ad ogni costo, da scalatori sociali di varia natura.

Illustrazione di Silvia Marinelli

Il Café PortNoy non è il mio bar e i reciproci rapporti -tra me e l'intero organismo di questo luogo né pubblico né privato- sono stati di cautelare diffidenza. 
L'alcol, poi -si sa- scioglie ogni reticenza. 

Cafè PortNoy 
Corso di Porta Ticinese 10 
Quartiere Ticinese 
Prezzo Sbagliato 5 euro