domenica 27 gennaio 2013

Sentire, ascoltare /85

In quella luce che filtra sottile sotto la porta e che si incunea oltre la toppa, si allunga, come un ologramma, nel buio artificiale della stanza, il ricordo dei risvegli domenicali d'infanzia. 

Dalle piccole e regolari feritoie della tapparella sfavilla, in coni di chiarore, la memoria del ciabattare mattutino di un parente. 

Stretto a un trapezio di bagliore, a metà altezza, sulla parete opposta alla finestra, si tiene, tra le pieghe di una lucidità intorpidita, pochi attimi dopo aver aperto gli occhi, l'idea del tempo che fu.

domenica 20 gennaio 2013

Sentire, ascoltare /84

Ha trovato la soluzione a un piccolo rompicapo: lambicca il cervello, sfrega i polpastrelli e schiude la bocca a stupore; una linguetta ricciuta sbuca sull'orlo scuro della cavità orale per inumidire leggermente l'angolo destro del labbro superiore. 

Come la sua, altre lingue, nello sforzo felice di risolvere un quesito, fanno capolino su volti increspati da marosi della mente. Altri modi, altri gesti: la mano che cerca pace e saggezza tra i peli della barba, il dito che stura l'orifizio dell'orecchio per filtrare guantate insinuazioni, l'occhio che strizza e la boccuccia che si arriccia in avanti per approvare con gusto; il labbro inferiore che si allarga per mostrare denti terrorizzati da parole masticate dall'interlocutore, e il naso, il sopracciglio, la guancia, i mustacchi. 

L'iconografia del volto umano pare sia nata, d'azzardo, una volta remota; ora, i tempi di reazione alle cose che accadono si incanalano in gesti e modi codificati, e sono il vezzo mimico che si spolvera con dileggio per dare immagine di sé agli altri, senza sorpresa, ma con garbata e piacente reiterazione.

domenica 13 gennaio 2013

Sentire, ascoltare /83

Si appiglia, in qualche luogo interiore, l'immagine di una città lontana. Di quella, molti ricordi sono assopiti, e quanto resta di vivo in memoria è destinato a combaciare con la città stessa. Per lei, città di mare avvitata attorno a vicoli centenari, vale l'immagine del vento. 

Abbandonate le ampie vie della città nuova, ci si addentra nel dedalo di viuzze del centro antico, dove tempi e costumi di un sentire lontano vivono stretti agli abitanti; tutt'uno con la pietra, quella gente tiene per mano qualcosa di impalpabile. 

L'aria spinta dal mare soffia alle porte di questo intrico di stradine e dirompe all'interno, dove può. Trova varco in via di Canneto il Lungo per poi diramarsi, senza perdere afflato, in altri vicoli.
Ne affiora una carta nautica urbana, senza acqua, con refoli ostinati in talune piazzette, soffi in tal altre salite, folate respingenti in alcune passeggiate, calma piatta in certi anfratti. 

Senza bussola né stelle -che i palazzi sono alti e come parallele si incontrano nel cielo, senza offrire punti cardinali- i passanti sono persi e goffi. 
A favor di vento un'anziana col bastone, sospinta dalla corrente aerea, pare camminare come un giovane longilineo -spalle larghe, senza pensieri.
Controvento un facchino si tiene il collo con il mento, in una posa che assomiglia a quella dei pugili quando, saltellando sulle punte dei piedi, si chiudono a riccio per evitare i colpi dell'avversario. 

Svoltato l'angolo il vento scema, e l'incedere dei passanti -claudicante, svogliato, elegante- rispecchia le loro personali inclinazioni ed esperienze. Ma l'angolo dopo è una rosa di venti e cadono i berretti e svolazzano le sciarpe.

martedì 8 gennaio 2013

Sentire, ascoltare /82

A un bar taciturno sulla Martesana, un anziano signore, con coppola e pochette, giacca beige a fantasia scozzese, ogni giorno, sul far della sera, domanda un'anisetta con mosca, per berla, poi, appena fuori l’uscio. E pare che il suo gesto -mano in tasca e baffi radi- sia il tentativo di versare un vizio liquoroso tra le pieghe di un luogo; il pretesto per ossequiare un rito sociale che appiccica ad una serranda ormai in chiusura. 

In qualche modo sono le abitudini a definire l'identità urbana, e i luoghi che conosciamo sono l'uso che se ne fa. La città trattiene, per ciascuno qualcosa, i caratteri dei suoi abitanti e li rilascia, poco a poco, nel corso del tempo. 

Alcuni costumi si perdono, altri resistono, certe maniere vengono meno in un quartiere del centro per dilagare tra le vie di una periferia: circolano, si arrestano in qualche dove, cambiano e in taluni casi muoiono. 

Assorbiamo dalle cose inanimate il senso che ad esse gli uomini hanno trasmesso: marciapiedi, basolati, serrande, pensiline, muri e faretti sono elementi architettonici a cui si è impigliato un qualcosa di vivo. 

*** 

Il brano appartiene a un trittico pubblicato da Ossobook, nuovissima rivista di città curata da Tommaso Labranca. 

Soggetto della rivista è l’area metropolitana milanese; la grafica si ispira vagamente all’essenzialità immediata e industriale degli anni meneghini Cinquanta e Sessanta, dai monocromi di Manzoni al lettering di Noorda per la MM. 

Il mio contributo si intitola Insetti: nel primo brano le bestioline sono metafora, nel secondo similitudine e nel terzo (qui sopra) traslato.

mercoledì 2 gennaio 2013

La guida Sbagliata /9


Illustrazione di Silvia Marinelli

Sprofondati in ampi cappotti e imbardati di sciarpe e berretti, i passanti attraversano gli spazi urbani senza precise qualifiche, pieni di se e di ma, ingigantiti da ombre sinistre e ridotti a cumuli di paure da sguardi obliqui, che alla luce del sole avrebbero tutt’altro significato.

La città, di notte, è una livella: le sue strade non hanno periferia, i suoi abitanti si assomigliano nelle intenzioni e si aggirano, avventori in cerca di bar, tirando il collo oltre solitari incroci, attratti da luminarie a intermittenza che indicano percorsi al luppolo, tappe etiliche e mete superalcoliche, assetati e già avvinazzati nei propositi.

***

Lungo il bancone, sotto il piano della musica, tra il luccichio delle spillette e gli opachi riflessi delle scaffalature a specchio, gomito a gomito, l’umanità, ridotta o diluita, scioglie grifagni pensieri urbani in old-fashioned di Negroni Sbagliato. 

Accade, però, che un tale senza più memoria del mondo là fuori, allargando le braccia in un gesto d’amore inopportuno, rovesci il bicchiere appena servito al vicino. Cola l’alcolico, cola l’avventore; e dall’impiastro schizzato a terra, pezzi di vetro e scaglie di ghiaccio, pasticcio e pastrocchio sotto le suole, esala l’ultimo fiato del cocktail. 

Come una fanfara le bestemmie del malcapitato accompagnano a lutto il suo Negroni, morto ammazzato da un estimatore ubriaco. Diranno, i vecchini accorsi a bere un bianchino il mattino dopo, si è trattato di un delitto passionale.


Nordest cafè
via Borsieri 35
Quartiere Isola
Prezzo Sbagliato 7 euro con aperitivo

martedì 1 gennaio 2013

Sentire, ascoltare /81

Sul panno verde di un tavolo da poker alla texana si affronta un gioco simile a un sistema di relazioni economiche accelerate, in scala ridotta.
Spartite le fiches, assegnati i posti e distribuite le carte, i giocatori, ciascuno con le proprie speranze, capacità e inclinazioni caratteriali, nel giro di pochi turni, rappresentano gli estremi di rapporti di forza diseguali. 

In breve, per intuito, fortuna o destino, uno o più giocatori accumulano un discreto credito a discapito degli sfidanti; le sorti del poker, una manche via l'altra, delineano prosperità e miseria di una piccola bisca. 

Le colonne di chips si ingrossano, altre si assottigliano, tal altre restano pressoché immutate; e i concorrenti, sul panno verde, in un colpo d'occhio aereo, riconoscono una realtà di classe e ceto che si allunga oltre i segni di un castello di carte. 

Così, i rappresentanti di questa lotta di classe alla texana -il chip leader, il fanalino di coda e l'uomo da metà classifica- appaiono come stereotipi di un gioco ben più cinico del poker. 

Il chip leader -tronfio, allegro, battuta facile- controlla ogni mano, interviene, con le proprie inarrivabili poste, per determinare il corso della competizione: punta, rilancia, costringe gli avversari a mosse avventate, spinge gli uni contro gli altri e amministra così, senza difficoltà, il tesoro. 

Il fanalino di coda -preoccupato, tristanzuolo e di poche parole- attende le carte giuste per il proprio all in, ovvero l'estremo tentativo di una scalata sociale che, tuttavia, il più delle volte, si rivela l'ultimo atto di gioco, l'eliminazione dal poker. 

L'uomo da metà classifica, quel ceto medio tanto discusso nei dibatti pubblici -oculato nelle scelte, poco partecipe al gioco e pieno di tic-, bada bene di non scivolare tra i posti bassi della classifica e attende, coi risparmi che ha da parte, che i concorrenti si affrontino e lascino strada spianata al podio. 

Così è, se vi pare. E però, trucchi e assi nelle maniche a parte, c'è chi, con indosso i panni del fanalino di coda, veste l'abito del campione; e in poche giocate rivoluziona le gerarchie e, anzi, livella il panno verde, restituisce speranze e destini, rilancia la gara. 

Si fa notte, quasi mattina, e di ritorno, per strada, si immagina la città velata da un grande panno verde pieno di concorrenti, carte, fiches. E si torna a giocare, a scala reale.