domenica 29 luglio 2012

Sentire, ascoltare /46

Milano. Vuoti e pieni. 

La riflessione ha un proprio luogo di nascita e di espansione: la parola, che essicca sulla pagina inchiostrata, è il perimetro di tale spazio; lo stampo delle lettere è il punto che ne dà forma; la superficie di tale geometria, tesa e mobile, è la meditazione. 

Tra caratteri alfanumerici, maiuscole e accenti, gambe e a capi, virgole e simboli, nascono e si espandono le elucubrazioni del lettore. 

Il grafico, secondo all'autore di un nonnulla, cura le proporzioni semantiche, definisce le gerarchie mentali, genera anfratti nei quali il lettore possa riposare la lettura, soppesare sensi e significati e, infine, pensare. 

La riflessione, dunque, consegue alle modalità di scrittura. Il font, la dimensione, lo stile e il carattere influenzano tanto lo scrittore quanto il lettore. Le scelte vettoriali incanalano il pensiero, influenzano i temi, suggeriscono toni e timbri di frasi e racconti. 

Il grafico definisce i vuoti nei quali, poi, il lettore possa riempire il proprio senso delle cose. 


La città è in equilibrio dinamico, tra vuoti e pieni: i cittadini sono caratteri mobili, attorno ai quali si estende lo spazio urbano; le professioni costituiscono tracce perimetrali che ne danno forma; le strade, con propria verticalità di palazzi e costruzioni, segnano il luogo di meditazione degli abitanti. 

E sarà, in questo svuotarsi delle metropoli, un esercizio di riflessione: ripensamenti, ricollocazioni, vuoti da riempire di senso proprio.

mercoledì 18 luglio 2012

Sentire, ascoltare /45

Ultimo capitolo.
La guardia di palazzo.


“Vi ho raccontato la mia storia e le storie di quanti mi sono passati sotto gli occhi. Forse non tutti; anzi, una minima parte, ma non per questo poco rappresentativa della mia vita”.
“Non metto dubbio, per quanti credono che i sogni possano rappresentare la realtà”.
“I sogni?”
“I sogni”.
“Chi parla? Sono io, è la mia volontà immaginifica a non volere interrompere questo raccontare”.
“Sogni e non vivi, sei frutto della mia immaginazione, e ti faccio sognare”.
“Chi sei?”
“Sei un mio scherzo, una mia fantasia. Forse credi di avere un cuore, una mente, una tua capacità di comunicare?”
“Io l'ho tutto questo. Esisto e ho raccontato finora, ho visto coi miei occhi, ho vissuto. Solo non riesco a capire con chi sto interloquendo”.
“Sono il narratore, di tutte le storie di questo libro”.
“Non è possibile, è scritto nero su bianco, è ormai fatta. Ecco la testimonianza della mia esistenza e della tua mala fede, impostore!”
“Se credi che non sia io a farti parlare, fai pure”.
“Non mi provochi, lo so, sono facile a vaneggiare, mi piace immaginare, confondo il sogno con la realtà, ma c'è il lettore a testimoniare la mia esistenza”.
“Ah sì, e come?”
“È sufficiente che vada a leggere i capitoli precedenti. Potrà così affermare, senza esitazioni, alla luce di quanto scritto, che io sono”.
“...”
“Almeno, che io sono sino al capitolo precedente”.
“Sei di un'epoca che non esiste e se non esiste non ci sei”.
“Eppure parlo e ho raccontato e ho visto, ho sentito, sono un fedele cronista delle vicende a cui ho assistito, e la mia corazza pesa e mi affatica durante il giorno”.
“E dove sei ora?”
“Sono seduto al mio tavolo a scrivere con penna d'oca, parola per parola”.
“Sei nel tuo letto e stai sognando di scrivere e non ti alzerai fin quando non vorrò io”.
“Eccomi in piedi! A scrivere in posizione certo scomoda ma a scrivere: 
I O  E S I S T O”.
“Che bello sentirti parlare, sembri un altro da me”.
“Lo sono”.
“Già, in fondo una storia vive di vita propria; i personaggi sono così reali, seppur ambientati in epoche fantastiche, che il lettore li fa vivi, ne sente i passi,  le voci, danza con loro, li prende per mano. Poi i lettori invecchiano e i personaggi rimangono delle loro età, testimoniando -senza giudici né processi- l'esistenza effimera di un'impalpabile materia. Ah la finzione”.
“Che sciocchezze, nelle storie si raccontano anche fatti reali, il deperimento della carne è un'altra cosa. Sei sicuro di non essere tu il sognatore, per mia volontà?”
“Io sono sognatore, ma perché è il mio modo di vivere”.
“Eccoti sprofondare nelle luci fioche che si percepiscono nel dormiveglia. Tu credi di essere sognatore, ma sono io che ti sogno e che ti voglio così”.
“Credilo pure, non mi importa, saranno i lettori a decretare la tua inesistenza”.
“Leggi cos'hai detto poco fa”.
“Dove?”
“Te lo dico io, che lo so bene visto che sono il narratore. Hai scritto Non metto dubbio per quanti credono che i sogni possano rappresentare la realtà”.
“E allora?”
“E allora i sognatori, e tu ti sei appena definito tale, hanno una realtà del tutto evanescente, fluttuante, opaca; si trovano in un posto e non sanno nemmeno come ci sono arrivati perché il sogno è il loro mondo e se smettessero di sognare morirebbero”.
“Hai perfettamente ragione ed è per questo che continui a parlare perché mi sei necessario, mi nutro delle tue storie, della tua inconsistente figura, così leggera, così discreta, come sei stata fino ad ora”.
“Siamo due sognatori e non crediamo l'uno all'altro”.
“Forse hai ragione; vedi, però, poco fa non capivi neanche chi fossi e ti preoccupavi di essere impazzito; ora mi parli come se mi avessi di fronte e ti confessi e mi consideri, mi dai corda, mi fai vivere”.
“Io ti sogno ora ad occhi aperti, qui seduto alla mia scrivania o in piedi con la corazza indosso”.
“Sei fumo, un pensiero, uno scherzo folle!”
“Lo sono! Voglio vedere te, tutto il giorno, ogni giorno, per anni, immobile a fare la guardia”.
“...”
“Inizi, non sai come, a parlarti da solo, a tenerti compagnia, e il rischio di diventare pazzo è più che una possibilità”.
“Sai cosa ti dico?”
“No, dimmi”.
“Che sei la parte di me più sincera e che se narrassi con la tua voce e non con la mia mi sentirei meglio”.
“Lo hai fatto finora, o hai creduto di farlo, insomma sono io che non ne posso più di me e ho lasciato che tu prendessi spazio nella mia mente, ma forse è ora che io torni in me, ho sonno, devo riposare”.
“Non ti addormentare, è così bello parlarsi di cose vuote, visioni, nulla”.
“Fa forse differenza se mi addormentassi? Non credi che saresti ancora con me?”.
“No, ho paura che sarà una brutta notte, e che al risveglio avrò dimenticato tutto”.
“Rimarrà il nostro dialogo, e sarà dolce per chi di noi lo leggerà, perché saprà con certezza di esistere”.
“Farà sorridere e farà sentire soli, tremendamente soli, no! Non smettere di raccontare, non scordarmi, non voglio toglierti la voce, piuttosto voglio dartene una ancora, ho bisogno di altri narratori per non svanire”.
“Ho scritto tanto, oppure ho pensato di farlo, non importa più. Racconta e lasciami andare, ti prego”.

domenica 15 luglio 2012

Aforismi, neologismi e bestialità /24


Il discorso è andato in barca.

Che una vacca diventi una barca non può stupirci. 
L'italiano parlato -complici un poco di ignoranza ed analfabetismo, spirito ciarliero e peculiarità della nostra lingua- si presta a facili distorsioni, trasformismi, strafalcioni. 

Le assonanze salvano musicalità di detti e proverbi ma sensi e significati si perdono nei tempi, nelle bocche e nelle orecchie. 



Milano, Bosco in Città. Notte fonda. 
Fifì e Saro trasportano un grosso sacco e Luchino, detto Orecchio Muto, li segue a una cinquantina di metri di distanza. 


“Quanto pesa questo porco gioielliere”. 
“Saro, pensa ai grammi d'oro sulla bilancia, quelli sì che pesano”. 
“Pesano e scottano amico mio”. 

Uno dai piedi l'altro dalla testa, il sacco ciondola come un'altalena e vola nel laghetto. 
Schizzi, cerchi, bolle, due anatre e tre tartarughe. Il corpo del gioielliere non c'è più. 

“Eccolo lo scansafatiche”. Dice Saro guardando arrivare Luchino. 
“Non c'è proprio anima viva ragazzi, nemmeno un custode da bastonare”. Risponde. 
“Meglio così. Fumiamoci una paglia, poi andiamo”. 

I tre si siedono sull'erba, in riva al laghetto, con tre lucciole in bocca. 

“Dimmi Fifì, hai sentito Damiano, il ricettatore?” 
“Sì ma dice che non è cosa. Ne abbiamo parlato un po', ci siamo anche scaldati, poi il discorso è andato in barca”. 
“Dobbiamo trovarne uno al più presto”. 
“Potremmo sentire Gipsy, so che naviga in cattive acque e non può rifiutare un lavoro del genere”. 
“Ci pensiamo dopo ok? Il lago mi mette malinconia e vedo tutto nero”. 
“Dicono che il lago sia triste perché trattiene i cattivi pensieri di chi lo guarda. Al mare o al fiume i cattivi pensieri se ne vanno; qui, al lago, restano per sempre”. 
“E che si prendano il grassone”.
“Pace all'anima sua”.