Le cose stanno le une alle altre. In qualche modo -e non può essere altrimenti- legate assieme.
Siamo spinti, ogni istante, in modo consapevole o meno, ad afferrare relazioni, nessi e situazioni; a decifrare incognite e variabili; ad adattare le cose nuove alle vecchie; a cogliere similitudini e metafore.
In questo procedere -inesorabile, senza meta e, infine, logorante- risolviamo il nostro senso di appartenenza ad una comunità, il desiderio di confonderci a una realtà complessa. Che giustifichi un certo tipo di esistenza.
Tuttavia è nella solitudine che la linea aggrovigliata delle congetture si scioglie -o si annoda, forte, senza margine di movimento- in un molle piano senza orizzonte.
Ecco, per chi resta in città d'estate, lo spazio pubblico, tra strade e palazzi, si fa propaggine della propria casa. Ogni luogo si fa personale e solitario, l'incontro -o il semplice scambio di sguardi- somiglia alla violazione della propria intimità.
Quando, poi, la città è presa nuovamente d'assedio dalla moltitudine dei suoi abitanti, per chi è rimasto lì -in tutto questo tempo- si ha, insieme, il fastidio di aver perso la solitudine e il sollievo di aver ritrovato il proprio rompicapo. Le cose tornano le une alle altre.