martedì 23 giugno 2015

Lo spettro visibile

Lungo il perimetro dei chiusini, sul ciglio dei marciapiedi, negli interstizi edili, persino abbarbicati alle inferriate dei balconi germogliano, di tanto in tanto, sparuti ciuffi d’erba, esili ma tenaci steli di piante – centinodia, malva, mercorella. Si usa definirle erbacce ma è flora urbica varia, vivace e resistente biodiversità metropolitana. 

Quando adocchio un cespo di questi, immagino di sfilarlo come fosse il filo di un abito: giro dopo giro scucirei le strade, i sottopassi, i ponticelli, le gradinate, le chiese, i palazzi; l’intero ordito della città si sfilaccerebbe in un peloso cumulo d’erba cementizio e attorno a me si aprirebbe un’immensa distesa di terra. 

Si fa presto a notare il verde in città, fosse anche sterpaglia: è un limite cromatico che determina gli spazi, che riposa gli occhi, che illumina le architetture e le materie, le figure adiacenti e le sovrapposte. Milano è perlopiù raffigurata in tinta grigia - la nebbia, le industrie, le polveri sottili, gli uomini d’affari - ma il colore che riflette è più brillante, più vivace. 

A mia memoria, nel recente passato, la percezione della scala colori meneghina si è alterata quando il maestro Claudio Abbado, intervistato da Giuseppina Manin del Corriere della Sera (30 dicembre 2008), disse che sarebbe tornato a dirigere l’orchestra del Teatro alla Scala solo con «un cachet fuori dall’ordinario. Novantamila alberi piantati a Milano. Un pagamento in natura». Parole d’amore, e l’amor che move il sole e l’altre stelle, muove anche i milanesi. 

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martedì 9 giugno 2015

Mobilia

Da qui è come se guardassimo da una feritoia. Si scorgono un piccolo trapezio del Tribunale di Milano, un'ampia curvatura della Cà Granda, l'ospedale Maggiore, le nervature gotiche della Torre Velasca, il retro dell'Università degli Studi di Milano. Siamo alla Guastalla, giardino all'italiana appena fuori la cerchia dei Navigli, tra via Francesco Sforza e via san Barnaba. 

All'ombra dei suoi faggi - c'è persino una secolare catalpa, l'albero dei sigari - si ha l'impressione ci si possa appartare e al contempo misurare con la città; come se guardassimo fuori dalla finestra, con le dita tese a divaricare le listerelle sottili della veneziana. «La casa è una città in piccolo, e la città è una casa in grande» (Leon Battista Alberti) e qui, lungo la circonvallazione interna, casa e città in qualche modo coincidono.

C'è un'espressione che mi piace molto e che appartiene a Milano in modo stretto: arredo urbano; sottende quell'idea della fatica e degli sforzi che le famiglie compiono per completare l'addobbo di una stanza - un oggetto alla volta, per fare di casa uno spazio in cui è bello vivere, invitare amici, crescere i figli - e suggerisce senso di appartenenza a una comunità di strada, di palazzi, di facciate e cortili.

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Inventario spaziotempo

Il primo orologio pubblico d'Italia, uno dei primi d'Europa, fu installato nel 1309 sul campanile della basilica di Sant'Eustorgio, nei pressi dell'attuale Porta Ticinese di Milano. Un quarto di secolo dopo, il congegno di un secondo orologio a vista fu azionato sulla torre della chiesa di San Gottardo in Corte. Un rintocco di campana per ogni ora trascorsa, a partire dall'una di notte. Il quartiere fu presto rinominato “Contrada delle Ore” e i suoi abitanti - così da ravvisare nel passato l'origine di una moderna attitudine urbana - si abituarono, nasi all'insù e tempo permettendo, ad andare di fretta, di corsa e a perdifiato. 

Il tempo, il modo in cui è vissuto, percepito, scambiato, in qualche modo a Milano più che altrove, segna l'immaginario urbano, si fonde ai miti e ai simboli della città. Un parziale e sgangherato inventario di quel che avvicina Milano alla dimensione del tempo meriterebbe di menzionare, ad esempio, il Giro d'Italia - in città si arriva di volata, lanciati in corso Sempione su basculanti telai di biciclette, bolidi in carbonio sul pavé dell'ultima tappa -, il primo semaforo del Paese - le oscillazioni, i flussi, le accelerate si allineano, nel 1925, ai colori di un luminoso cilindro stradale installato all'incrocio di via Torino con via Carlo Alberto, l’attuale via Mazzini -, il futurismo - movimento e dinamismo sono muse di caotici artisti riunitisi in città a dorso di ruggenti centocavalli -, l'invenzione della schiscetta - altrimenti detta la nutrizione mobile (cit. Stefano Rolando) -, i claim degli aperitivi - su tutti, contro il logorio della vita moderna, indimenticato adagio che sottende una serie di situazioni, espressioni e condizioni del tempo meneghino: frenesia, traffico, c'è-coda, straordinari, produzione, orari-di-lavoro, turni, attàccati-al-tram, rapidità, attese, coincidenze, agende-fitte, calendari, deadline, dopo e apericena, pausa caffè, e così via -, la fondazione del Touring Club - ad opera di un gruppo di 57 velocipedisti -, il primo orologio elettrico e il primo impianto di orologi stradali - una sorta di rifondazione del mito -, il Duomo - di cui tutti ricordano, più d'altro, i 500 anni, ah il tempo!, che la Veneranda Fabbrica ha impiegato per costruirlo -, Düra minga - espressione dialettale nota ai più, e resa celebre da storici spot pubblicitari, la cui durata canonica (30 secondi) non mi stupirei se fosse invenzione di un milanese -, le Esposizioni Universali - la prima, del 1906, dedicata ai trasporti, alle vertiginose distanze abbattute dal progresso scientifico, e l'odierna, Expo Milano 2015, il cui sito espositivo si è concluso di corsa, contro il tempo, secondo precise scadenze indicate nel crono-programma, che tante attenzioni ha calamitato nel corso di un ostentato ed estenuante countdown.

Il tempo, però, non può che allungarsi o diluirsi nello spazio; e Milano, restia a mostrare la propria intimità - giardini segreti, porticati taciuti, cortili occulti, anfratti discreti, corti protette, androni sinistri -, ho come l'impressione che stia orientandosi, in questo immaginario piano cartesiano spaziotempo - oltre l'annoso e pur sempre vitale dibattito scientifico-letterario su centro e periferia, inclusione ed esclusione - verso la ri/scoperta dei luoghi in città, il ri/pensamento dello spazio pubblico, la ri/costruzione del tessuto urbano. 

Se lo spazio è «ciò che arresta lo sguardo, ciò su cui inciampa la vista: l'ostacolo: dei mattoni, un angolo, un punto di fuga» (Georges Perec, Specie di spazi), allora è necessario far correre gli occhi, osservare, annotare, registrare. Il ciclico rigenerarsi delle energie urbane, la congiuntura storico-sociale, l'Esposizione Universale hanno sensibilmente modificato le forme, i bordi, i rilievi, le dimensioni di una città (o almeno di alcune parti parte di essa) che già nella sua denominazione, Mediolanum - oh nomen omen! -, custodisce il concetto di spazio, l'idea di terra.

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Il racconto della città

Non esiste Esposizione Universale senza città che la ospiti. Da Londra 1851 - l'Italia non era ancora unita - a Shanghai 2010, le sorti dei grandi eventi a scala globale hanno incontrato i destini delle metropoli designate. Expo Milano 2015 - la locuzione adottata dal Bureau International des Expositions (BIE) è eloquente di per sé: il nome della città è la parola di mezzo, il perno lessicale - non fa eccezione, tanto più se, oggi più che allora, gli agglomerati urbani costituiscono le chiavi di volta delle nostre complesse architetture sociali.

I campanili, di pietra e di pensiero, che svettano alti, dentro e fuori le mura delle città, orientano ancora, e con rinnovata forza attrattiva, gli sguardi di chi attraversa gli spazi, reali e simbolici, delle metropoli: identità, usi, tradizioni, appartenenze vanno ridefinendosi lungo le strade di popolosi quartieri cittadini. Non è un caso, io credo, se in rete, sulle timeline dei social network - da Twitter a Instagram -, la possibilità di geolocalizzarsi, di segnalare la propria presenza, di raccontare e raccontarsi attraverso i luoghi in cui ci si trova, abbia assunto un valore pari, se non maggiore in taluni casi, alle parole che immettiamo nei circuiti digitali.

La città - nel 2030 quasi due terzi dell'umanità vivrà in sistemi urbani - è il tessuto narrativo dei nostri tempi. Non solo per flâneur 2.0, novelli Marco Polo e Kublai Khan, pionieri antropologi e romanzieri d'antan, ma anche per imprese e giunte, city users e imprenditori, cittadini e turisti. In questo contesto, e con alle spalle esempi di rilievo - si pensi alla Torino delle Olimpiadi invernali del 2006 -, la prossima Esposizione Universale, il cui sito è sorto ai confini della città, quasi a significare un'estensione fisica e geografica delle mire urbane, assume una posizione di rilievo, costituisce un tassello importante del racconto urbano.

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