lunedì 25 maggio 2015

Sentire, ascoltare /142

Mi pare di conoscerla, dove l'ho vista? Ah sì, ora ricordo. La saluto? E se non mi riconoscesse? Perché dovrebbe ricordarsi di me. Si avvicina, sono una cinquantina di passi. Beh, io mi ricordo di lei, lei dovrebbe ricordarsi di me; non sono mica un genio della memoria visiva. Siamo quasi appaiati. Non mi guarda, forse mi ha riconosciuto e fa finta di non vedermi. Forse, invece, è solo distratta. Eccola. «Ciao!». Non mi ha riconosciuto. 

***

«Alfonso, ma dove vai?! Siediti qui vicino a me».
«Taci una buona volta, Maria! Preferisco stare qui, si sta più larghi».
«Non essere maleducato, Alfonso, davanti a tutti».
«Uff».
«Fai come vuoi».

«Mi scusi, signor Alfonso, la carrozza sarà a breve stracolma, e dove lei si sente più largo le mancherà il fiato. Questo treno, poi, potrebbe impiegare giorni per arrivare a destinazione; le consiglio di sedersi vicino a chi le vuole bene».

***

Non c'è neanche un posto, vorrei sedermi. Mmm, vediamo, lui! Sono certo che alla prossima scende. Certo da quassù è sgradevole, che odore di balsamo sudato. Ho come l'impressione che sotto il getto caldo del soffione della doccia, con le mani nei capelli, i polpastrelli impastati dallo shampoo, quest'uomo provi la stessa sensazione che provo io quando, nel lavello, sotto l'acqua del rubinetto - mai tiepida come si vorrebbe che fosse -, le dita aderenti all'acciaio smaltato della pentola, sfrego perché l'unto scivoli via e invece non scivola. E come io mi chiedo se l'unto sia così ostinato per colpa della spugna o del detersivo-piatti gel o della pentola o dell'acqua o della mia scarsa applicazione, suppongo che quel tale, una volta appurato che i capelli continuano ad appiccicare anche dopo averli ben fonati, si chieda se sia colpa delle sue dita o dello shampoo o della cute o dell'acqua o della sua scarsa applicazione. Però è sceso.



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