lunedì 19 ottobre 2020

Romanzi medievali d'amore e d'avventura

L'ultimo libro che ho letto è «Romanzi medievali d'amore e d'avventura».

Una raccolta di poemi della prima letteratura francese, scritti tra XII e XIII secolo da Benoît de Sainte-More, Chrétien de Troyes, Beroldo, Maria di Francia ed altri.

Domina la materia di Bretagna o ciclo arturiano e ci si trova la leggenda dei cavalieri della Tavola Rotonda (spesso alla ricerca del Santo Graal detto anche Sacro Vasello).

Protagonisti sono Galvano, Perceval (scemo ma predestinato, quindi fortissimo), Boorte (ultimo a perire), Lancillotto del Lago (la cui storia è qui narrata per la prima volta) e suo figlio Galaad, cavaliere destinato a estrarre la spada dalla roccia (e non è Excalibur, già cavata da Re Artù; e ce ne sono altre).

Ad ogni uomo una e infinite avventure: che capitano, e che però vale la pena far capitare, perché in esse il cavaliere si misura, e ciascuna vittoria «rappresenta una prova morale di se stesso» (Leo Spitzer). 

Detto altrimenti: una storia di pazzi a cavallo, che uccidono e si pentono ad ogni punto e virgola, in un contesto fantastico miracoloso dove tutto pare già scritto a patto che lo si scriva.


«"Sire, laggiù ai piedi del vostro palazzo vi è un pietrone grande che ho visto navigare sopra l'acqua. Venitelo a vedere, perché io ben so che si tratta di un'avventura molto meravigliosa". Ed il re discende immantinente e così fanno tutti gli altri. E quando son giunti alla riva, trovano il pietrone che era uscito dall'acqua e che era di marmo vermiglio; e nel pietrone vi era conficcata una spada, che molto era bella e ricca a vedersi; ed era l'impugnatura di una pietra preziosa lavorata a lettere d'oro molto abilmente. E i baroni guardano le lettere che dicevano: NIUNO MI TIRERÀ FUORI DI QUI SE NON COLUI AL CUI FIANCO IO DEBBO PENDERE, E COSTUI SARÀ IL MIGLIOR CAVALIERE DEL MONDO».

martedì 22 settembre 2020

L'invasione degli orsi in Sicilia

L'ultimo libro che ho letto è «La famosa invasione degli orsi in Sicilia» di Dino Buzzati.

L'autore è nel mio cuore per tre motivi: scrive e disegna ciò che scrive (una combo a cui non so resistere), racconta e romanza una porzione di Milano - tra Porta Venezia e Stazione Centrale - che appartiene (anche) alla mia topografia sentimentale, ed è un alfiere della letteratura fantastica.

Ne «La famosa invasione degli orsi in Sicilia» ci sono due di questi elementi: il disegno (mirabile, da far invidia a Geronimo Stilton, per dire) e l'idea del fantastico, di cui Buzzati scrive:

«Direi che fantastico è ciò che non esiste. Però, quante cose che non esistono e che non sono fantastiche! Quindi aggiungerei che sono le cose che non esistono e che sono immaginate dall'uomo. E se consideriamo la letteratura, allora sono le cose che non esistono, immaginate dall'uomo a scopo poetico. Ecco. Questa è la definizione di fantastico che darei».

La storia inizia con la presentazione dei personaggi, e ai loro nomi - che trovo bellissimi - vi consegno: Re Leonzio, Tonio, il Professore de Ambrosiis, Orso Salnitro, Orso Frangipane, Orso Babbone, Sire di Molfetta, Gatto Mammone, ...



giovedì 10 settembre 2020

Un'idea dell'India

L'ultimo libro che ho letto è «Un'idea dell'India» di Alberto Moravia.

Reportage pubblicato nel 1962 dopo un soggiorno in India - il suo terzo - con Elsa Morante e Pier Paolo Pasolini.

[Quest'ultimo, nel corso del medesimo viaggio, ha scritto «L'odore dell'India». 

I due libri vanno a braccetto: Pasolini s'affida ai sensi (l'odore) e Moravia scruta le ragioni spirituali (un'idea) e la poetica dell'uno si rischiara al cospetto di quella dell'altro.]

Ci sono molte cose degne di nota, ma per brevità (e limite coatto di battute Instagram) mi limito a riportare un dialogo che ci riguarda da vicino.

«Allora sei stato in India. Ti sei divertito? 
No. 
Ti sei annoiato? 
Neppure. 
Che ti è accaduto in India? 
Ho fatto un'esperienza. 
Quale esperienza? 
L'esperienza dell'India. 
E in che cosa consiste l'esperienza dell'India? 
Consiste nel fare l'esperienza di ciò che è l'India. 
E che cos'è l'India! 
Come faccio a dirtelo. L'India è l'India. 
[...] 
Dimmelo in una formula, in una sentenza, in uno slogan. 
Ebbene l'India è il contrario dell'Europa. 
Ne so quanto prima. Bisognerebbe prima di tutto che tu mi dicessi che cos'è l'Europa. 
Preferisco trovare uno slogan per l'India. Diciamo così, allora, che l'India è il paese della religione.
E questo sarebbe il contrario dell'Europa. Ma anche l'Europa è religiosa. 
No, l'Europa non è religiosa. 
Eppure le religioni pagane del Mediterraneo e dei paesi nordici, il Cattolicesimo, la Riforma... 
Non importa l'Europa non è religiosa. 
Che cos'è l'Europa? 
Se fossi un indiano, forse te lo saprei dire. Come europeo mi riesce difficile. 
Allora immagina di essere indiano. 
Come indiano ti direi: l'Europa, quel continente dove l'uomo è convinto di esistere e di essere al centro del mondo, e il passato si chiama storia, e l'azione è preferita alla contemplazione; l'Europa dove si crede comunemente che la vita val la pena di essere vissuta e il soggetto e l'oggetto convivono in buona armonia, e due illusioni come la scienza e la politica sono prese sul serio e la realtà non nasconde niente, eppure, non per questo, è niente; l'Europa che cosa ha a che fare con la religione? [...]».

Poscritto: ho riletto questo libro come si fa con le vecchie fotografie quando, alla fine d'un viaggio, si cerca un modo per continuare a viaggiare; e per l'appunto, la foto di sfondo è un mio scatto, di qualche anno fa, ad Agra.



mercoledì 2 settembre 2020

Il Mediterraneo

In vacanza ho portato una pila di libri così e sarà come sarà ma non ne ho aperto neanche uno (guide Touring a parte). Ora, però, si ricomincia.

L'ultimo libro che ho letto è «Mediterraneo» di Fernand Braudel: un saggio, un classico, una rivelazione. 

L'ho riletto per tre motivi.

Perché mai come quest'anno nei mari del Mediterraneo ci siamo tuffati (quasi) tutti: e un bagno di massa, nel pieno d'una pandemia, ha un che di apotropaico. 
Perché è un compendio (di storia) capace di disinnescare luoghi comuni, banalità e trappole retoriche con cui il presente ci assedia e circonda.
Perché insegna a organizzare la complessità, stupisce e fa venire voglia di studiare.

(Io lo farei leggere in tutte le scuole che si affacciano al mare)


«Tutto questo perché il Mediterraneo è un crocevia antichissimo. Da millenni tutto vi confluisce, complicandone e arricchendone la storia: bestie da soma, vetture, merci, navi, idee, religioni, modi di vivere. E anche le piante. Le credete mediterranee. Ebbene, a eccezione dell'ulivo, della vite e del grano - autoctoni di precocissimo insediamento - sono quasi tutte nate lontane dal mare. Se Erodoto, il padre della storia, vissuto nel V secolo a.C., tornasse e si mescolasse ai turisti di oggi, andrebbe incontro a una sorpresa dopo l'altra. "Lo immagino," ha scritto Lucien Febvre, "rifare oggi il suo periplo del Mediterraneo orientale. Quanti motivi di stupore! Quei frutti d'oro tra le foglie verde scuro di certi arbusti - arance, limoni, mandarini - non ricorda d'averli mai visti nella sua vita. Sfido! Vengono dall'Estremo Oriente, sono stati introdotti dagli arabi. Quelle piante bizzarre dalla sagoma insolita, pungenti, dallo stelo fiorito, dai nomi astrusi - agavi, aloè, fichi d'India -, anche queste in vita sua non le ha mai viste. Sfido! Vengono dall'America. Quei grandi alberi dal pallido fogliame che pure portano un nome greco, eucalipto: giammai gli è capitato di vederne di simili. Sfido! Vengono dall'Australia. E i cipressi, a loro volta, sono persiani, Questo per quanto concerne lo scenario. Ma quante sorprese, ancora, al momento del pasto: il pomodoro, peruviano; la melanzana, indiana; il peperoncino, originario della Guyana; il mais messicano; il riso, dono degli arabi; per non parlare del fagiolo, della patata, del pesco, montanaro cinese divenuto iraniano, o del tabacco". Tuttavia, questi elementi sono diventati costitutivi del paesaggio mediterraneo: "Una Riviera senza aranci, una Toscana senza cipressi, il cesto di un ambulante senza peperoncini... che cosa può esservi di più inconcepibile, oggi, per noi?».

sabato 11 luglio 2020

Il più grande uomo scimmia del Pleistocene

L'ultimo libro che ho letto è «Il più grande uomo scimmia del Pleistocene» di Roy Lewis.
Un romanzo.
Un romanzo comico. 
Un romanzo comico di fantascienza.
Un romanzo comico di fantascienza (a ritroso).
Un romanzo comico di fantascienza (a ritroso) inglese.
Tale definizione accomuna la prosa di Roy Lewis (parentesi a parte) a quella di almeno altri tre scrittori di culto. 
Terry Pratchett e Neil Gaiman - «Buona Apocalisse a tutti!» (1990) - e Douglas Adams - «Guida galattica per gli autostoppisti» (quasi 1980). Roy Lewis arriva prima: pubblica nel 1960 e quest'anno fa cifra tonda.
[La mia fanta conoscenza comica mi pare finisca qui: chi altro va annoverato in questo felice consesso di scrittori? Graditi consigli di lettura]  
Roy Lewis racconta, per voce di un giovane uomo scimmia, la storia di una famiglia che vive nel Pleistocene, guidata da un capo branco - Edward, inventore e scopritore, protagonista del libro - tutto dedito a far progredire la propria orda.
Una ricognizione a volo d'uccello sulla storia dell'umanità (e non siamo poi cambiati molto nel corso dei millenni).
«C'è da masticare un sacco di roba». Disse la mamma. «Se non lo finiamo subito, questo elefante diventerà assolutamente immangiabile». «Non hai torto, cara» ammise papà, prendendo un costolone. «Anzi, forse hai centrato il cuore del problema. Ci sto pensando da un po'. Grosso modo, ho calcolato che noi passiamo un terzo del nostro tempo a dormire, un terzo a procurarci la carne e tutto il terzo rimanente a masticarla. Eppure il tempo che dedichiamo ai pasti sembra non bastare mai. I miei bruciori di stomaco si sono aggravati. Ciò non fa che confermare il mio ragionamento. Se la routine quotidiana ci impegna tanto, come facciamo a pensare? Anche per quello ci vuole tempo, e non serve obiettare che masticando si rimugina; non è affatto vero, o comunque non è vero quando si deve masticare come facciamo noi. Per allargare la mente e contemplare con più calma e distacco i nostri obiettivi, abbiamo bisogno di dare requie al lavorìo delle mandibole. Senza un certo agio e una certa tranquillità non può esserci lavoro creativo, né cultura, né civiltà». «Che cos'è la cultura, papà?».



mercoledì 8 luglio 2020

Auto da fé

L'ultimo libro che ho letto è «Auto da fé» di Elias Canetti.
Il suo unico romanzo. Pubblicato nel 1935, scoperto negli anni Sessanta, amato a partire dal decennio successivo, riscoperto alla morte dell'autore (1994).
[Ha la potenza di un classico e assieme a «Massa e potere», saggio in parte complementare ad «Auto da fé», scritto nell'arco di una vita intera, è valso all'autore il premio nobel per la letteratura].
Parte prima: una testa senza mondo.
Parte seconda: un mondo senza testa.
Parte terza: il mondo nella testa.
(Non c'è una quarta parte che si intitoli: una testa nel mondo. Non è ammessa).
Il romanzo narra la storia di un certo Peter Kien: quarantenne, sinologo di fama mondiale, spigoloso e intransigente, tutto dedito ai suoi studi, asserragliato nella biblioteca di casa, cinto da mura di libri con cui non disdegna conversare. 
Fino a quando, in un modo che muove il riso pur senza rallegrare, il protagonista (una testa senza mondo) è costretto a uscire di casa (un mondo senza testa) e a fare i conti con se stesso (il mondo nella testa).
Ne succedono di belle, di tragiche, di feroci e si profila una vita deserta dall'amore, nata da un amore profondo che quel deserto voleva denunciare (semicito Claudio Magris). 
Il mondo descritto è ancora il nostro e vale la pena metterci la testa. 
«Da quando era stato cacciato di casa Kien era sovraccarico di lavoro. Per tutta la giornata percorreva la città con passo tranquillo e tenace. Ai primi albori era già ritto sulle lunghe gambe. A mezzogiorno non si concedeva né cibo né riposo. Per economizzare le proprie forze aveva suddiviso il campo della sua attività in settori ai quali s'atteneva scrupolosamente. Nella borsa portava un'enorme pianta della città, scala 1:5000, sulla quale le librerie erano indicate con gradevoli cerchietti rossi».



venerdì 26 giugno 2020

Dracula

L'ultimo libro che ho letto è «Dracula» di Bram Stoker.

Un romanzo di fine Ottocento di cui tutti conosciamo almeno un paio di trasposizioni: riduzioni, perlopiù e naturalmente, in cui quasi sempre manca, però, il terrifico controcanto di Mina Harker e Lucy Westerna.

[Da «Dracula di Bram Stoker», capolavoro di Francis Ford Coppola, a «Dracula», miniserie trasmessa da Netflix a gennaio 2020 - pare un secolo fa -, davvero ben fatta].

A tal proposito: un dato che sorprende (almeno un po'): la nostra industria culturale - il cinema soprattutto - deve tanto, tantissimo - e chissà per quanto ancora -, agli scrittori in attività sul finire del XIX secolo.

1881 «Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino» di Carlo Collodi
1883 «L'isola del tesoro» e «La freccia nera» di Robert Louis Stevenson
1886 «Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde» di Robert Louis Stevenson 
1887 «Uno studio in rosso», primo del ciclo di Sherlock Holmes, di Arthur Conan Doyle
1889 «Un americano alla corte di re Artù» di Mark Twain
1897 «Dracula» di Bram Stoker
1905 «Arsenio Lupin» di Maurice Leblanc

(È solo un assaggio: la lista è lunga).

Titoli che dicono qualcosa a tutti - anche a chi non piace leggere - (e qualcuno vada ad indagare questa stretta liaison tra noi e loro). Ma soprattutto: sceneggiatori di tutto il mondo unitevi (in biblioteca): sono certo che da quei trent'anni lì si possa tirar fuori un "inedito" ancora.

Quanto a «Dracula», brevemente, la storia, che si dipana esclusivamente attorno alle pagine di diario e all'epistolario dei protagonisti, fa davvero paura, fa molto più paura dei racconti di H. P. Lovecraft, fa una paura nera.

La chiave è tutta nel verosimile e nel movimento del romanzo che, spira dopo spira, nell'arco di 500 pagine, avvita il lettore alla coscienza di Jonathan Harker.

Capolavoro.

Un brano. «Coricatomi, ho dormito solo poche ore e, con la sensazione di non poter dormire dell'altro, mi sono alzato. Avevo appeso lo specchietto alla finestra e ho cominciato a radermi. E d'un tratto, mi sono sentito una mano sulla spalla e ho udito la voce del Conte che mi diceva: "Buongiorno". Ho sussultato, stupito com'ero di non averlo visto, dal momento che lo specchio rifletteva l'intera stanza alle mie spalle. Nel sobbalzo, m'ero fatto un piccolo taglio, ma non l'ho notato subito. Dopo aver risposto al saluto del Conte, ho girato lo specchio per rendermi conto di come non lo avessi notato. Ma questa volta, impossibile l'errore: mi stava vicino, lo vedevo da sopra la spalla, ma nello specchio egli non si rifletteva! Scorgevo l'intera stanza dietro di me, ma in essa non vi era traccia di creatura umana, a parte me. Era sorprendente e, aggiungendosi a tante altre stranezze, non faceva che accrescere quella vaga sensazione di disagio che avevo sempre provato in presenza del Conte; e proprio in quella mi sono accorto che dalla ferita era uscita qualche goccia di sangue, e che questo mi colava sul mento. Ho deposto il rasoio, volgendomi alla ricerca di un cerotto. Come il Conte ha scorto il mio volto, eccone gli occhi accendersi di una sorta di demoniaco furore, eccolo fare un gesto, come per afferrarmi alla gola. Mi sono ritratto, e la sua mano ha sfiorato il rosario cui è appeso il crocifisso. Un subitaneo mutamento si è verificato in lui: il furore è scomparso con tanta rapidità, da farmi dubitare che ci fosse stato».



Romanzi in tre righe

Aveva scommesso di bere quindici bicchieri di assenzio, accompagnandoli con un chilo di manzo. Al nono Théophile Papin, di Ivry, è stramazzato.

«Romanzi in tre righe», Félix Fénéon


martedì 23 giugno 2020

Le mille e una notte

L'ultimo libro che ho letto è «Le mille e una notte».

Una raccolta anonima di novelle in arabo, ma di lontane origini indo-persiane, che dal XVIII secolo, con la traduzione francese di Galland, segna il modo in cui l'Occidente immagina l'Oriente.

Una sorta di inception - il riferimento è al film di Nolan, con DiCaprio - che abita ancora la nostra volta cranica e dice: va' e rintraccia quel mondo antico! Dal sūq alla pittura Moghul, dal caravanserraglio al suono del sitar. Roba da turista, se vuoi.

«Le mille e una notte», però, è anche ben altra cosa: invenzione, canone universale, metafora fondante, storia e sogno, classico senza tempo.

Come il Don Chisciotte, come l'Odissea.

La storia - o meglio, la sua cornice - è nota, ma il libro va letto, e occhio a scegliere la traduzione migliore, perché basta una parola fuori posto a rompere l'incanto.

Un passaggio tratto dalla novella «Il facchino e le dame».

«"Facchino, alza la tua gerla e seguimi!".
"Va bene, forza" acconsentì quel bravo giovane. E riprendendo la gerla la seguì, continuando a mormorare: "Giorno propizio! giorno fecondo! giorno di allegrezza!...".
La donna lo fece inseguito fermare davanti alla bottega di un fruttivendolo. Comprò mele di color chiaro, cotogne di Turchia, pesche di Khullân, mele moscatelle, gelsomini, ninfee di Siria, cetrioli delicati, limoni di Marakîb, cedri reali, rose bianche, basilico, fiori di henné, camomilla fresca, violaciocche, mughetti, gigli, anemoni, viole, occhi di bue dai petali gialli, narcisi, fiori di melograno... Sistemò tutto nella gerla del facchino e quindi si recò dal macellaio».



venerdì 19 giugno 2020

IL CASTELLO

L'ultimo libro che ho letto è «Il castello» di Franz Kafka.

Un (altro) romanzo interrotto. Il mio preferito dei suoi. 

Non si dice mai, ma quel che rimane a lettura ultimata di un libro di Kafka è una tremenda incazzatura, un fastidio manifesto e una latente ansietà.

Ci si immedesima così tanto da volere entrare nel romanzo: per spaccare tutto e dirgliene quattro anche al protagonista (un certo «K.» che ricorre nella prosa del nostro caro Franz). 

Ciò naturalmente non è possibile, ma è vero il contrario: il romanzo irrompe nel mondo nostro, ci mette indosso l'abito di K. e a ciascuno indica il processo, il castello o la metamorfosi da affrontare. 

(Una lettura collettiva potrebbe innescare una rivolta sociale.)

La storia inizia con l'arrivo di un agrimensore - e di questa professione vorrei tanto parlare, ma forse è meglio in un altro post - alle pendici del Castello; e già da principio emerge la poetica di Kafka, capace di rendere possibili e reali avvenimenti insoliti e figure fuori dal comune.

«Era sera tarda quando K. arrivò. Il paese era sprofondato nella neve. Il colle non si vedeva, nebbia e tenebre lo circondavano, non il più debole chiarore rivelava il grande castello. K. sostò a lungo sul ponte di legno che dalla strada maestra conduceva al paese e guardò su nel vuoto apparente.

Poi andò a cercare un alloggio per la notte; alla locanda erano ancora svegli, l'oste non aveva stanze libere ma, assai stupito e sconcertato da quel cliente tardivo, offrì di farlo dormire nella sala su un pagliericcio. K. fu d'accordo».



Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Ci saranno altri giorni.
Ci saranno altre voci.

«Verrà la morte e avrà i tuoi occhi», Cesare Pavese




GERMINALE

L'ultimo libro che ho letto è «Germinale» di Émile Zola.

Seconda rivoluzione industriale: nord della Francia: una miniera: la classe operaia: il sabotaggio dei macchinari: il collasso del pozzo: e poi, un cavallo.

Un cavallo allegoria, che però è anche solo un cavallo. 
Un cavallo di nome Battaglia. 
Un cavallo del sottosuolo, vissuto in miniera, al buio. 
Un cavallo che ti entra nella testa e non ne esce più.

«Era Bataille. Partito dalla sala d'imbocco aveva galoppato disperatamente lungo le gallerie buie. Sembrava conoscere alla perfezione la strada in quella città sotterranea dove abitava da undici anni e, in quella notte profonda in cui aveva vissuto, gli occhi vedevano chiaramente. Galoppava piegando la testa, raccogliendo le zampe e correndo in quei budelli che il suo grande corpo riempiva interamente. Le strade si succedevano e si aprivano crocevia, ma lui non esitava. Dove andava? Là forse, verso la visione della sua giovinezza, al mulino in cui era nato, sulle rive delle Scarpe, verso il ricordo confuso del sole che bruciava in cielo come una lampada enorme. Voleva vivere, la sua memoria di bestia si risvegliava, la voglia di respirare l'aria delle pianure lo spingeva dritto davanti a sé fin quando avesse scoperto il buco, l'uscita sotto il cielo caldo, nella luce. La rivolta aveva avuto la meglio sulla sua antica rassegnazione. E dopo averlo accecato, quel pozzo lo stava ammazzando. L'acqua che lo inseguiva gli sferzava le cosce e mordeva la groppa. Ma più affondava più le gallerie diventavano strette, le volte basse e le pareti vicine. Galoppava lo stesso scorticandosi, lasciando sui rivestimenti brandelli di carne. La miniera sembrava stringersi su di lui per prenderlo e soffocarlo. Mentre il cavallo si avvicinava, Étienne e Catherine lo videro restare intrappolato tra le rocce. Era inciampato, si era rotto le zampe anteriori. E con un ultimo sforzo si era trascinato qualche metro avanti, ma i suoi fianchi non passavano e restò avvolto, incatenato dal terreno. Nell'allungare la testa sanguinante con i grandi occhi appannati cercava ancora un varco. L'acqua lo coprì rapidamente, cominciò a nitrire con lo stesso rantolo prolungato atroce, degli altri cavalli morti nella stalla. E l'agonia di quella vecchia bestia, fracassata, immobilizzata, che si dibatteva a quelle profondità, lontano dalla luce, fu raccapricciante. Il suo grido di terrore non cessava, con l'acqua alla criniera continuava, più rauco, la bocca tesa e spalancata. Si sentì un ultimo gorgoglio, il rumore sordo di una botte che si riempie. Poi seguì il silenzio».



domenica 14 giugno 2020

Il cortile maledetto

L'ultimo libro che ho letto è «Il cortile maledetto» di Ivo Andrić.

La novella narra d'un frate cattolico bosniaco (Pietro), in missione a Costantinopoli nel XV secolo, costretto a passare due mesi della sua vita in una prigione ottomana.

Ci si cala nella storia per voce di qualcuno, che racconta di tal altro, che novella d'altri ancora, e ancora, e ancora. Poi, così come si è discesa la china degli avvenimenti, la si risale, volta a volta per altri sentieri, sino alla voce da cui tutto iniziò.

Un libricino denso, capace però di contenere - cito Jolanda Marchiori, la traduttrice - tutta «un'amalgama etnico-psicologico del mondo orientale» il cui fascino, crudo e sognante come letteratura romantica vuole, ancora mi avvince.

«Il cortile maledetto» - titolo originale, in serbo, «La corte del diavolo» - è il solo libro di Andrić che io abbia letto - il suo più noto è «il ponte sulla Drina» - e sarà bene che mi metta in pari.

Questa volta, anziché riportare un brano del libro, racconto un aneddoto.

Tre anni fa Siniša Mihajlović - all'epoca allenatore del Torino, ora del Bologna - fu accusato di non conoscere il «Diario di Anna Frank»: al giornalista che ne chiedeva contezza mister Siniša, dopo aver argomentato la sua posizione - che qui non interessa -, aggiunse: «Posso fare una domanda io a te?».
«Certo».⠀
«Tu sai chi è Ivo Andrić?».⠀
«No» rispose il conduttore, dopo un significativo silenzio generale.⠀
«No... Ivo Andrić è premio Nobel per la Letteratura della ex Jugoslavia. A noi a scuola ci insegnavano Ivo Andrić».


Il marinaio

Prima vegliatrice - Non avevo mai visto il mare prima d'ora. Lí, da quella finestra, l'unica da cui si possa vedere il mare, lo si vede così poco!... È bello il mare degli altri paesi?

Seconda vegliatrice - Solo il mare degli altri paesi è bello. Il mare che vediamo ci dà sempre nostalgia di quello che non vedremo mai...

«Il marinaio», Fernando Pessoa



I fiori blu

L'ultimo libro che ho letto è «I fiori blu» di Raymond Queneau.
Un romanzo la cui materia sono il sogno, la storia, le parole e un mucchio di altre cose da leccarsi i baffi.
Il racconto si sviluppa nell'arco di 700 anni: col protagonista, il duca d'Auge (ma ci sono anche Cidrolin e due cavalli parlanti), che appare ogni 175 anni (1264, 1439, 1614, 1789, 1964).
Un'invenzione bellissima: un meccanismo - al cui interno ruota anche il movimento del genere giallo - che fa della letteratura un'esplorazione del potenziale creativo del narrare stesso.
Ma non è d'obbligo andare in profondità - in cerca del segno che riveli il segno, nel perimetro chiuso e mai finito del romanzo -, si può restare in superficie, ciondoloni sulla riva del racconto, osservando passare la storia e i suoi flutti.
(In questo libro ci si diverte un mondo)
«Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca d’Auge salì in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara. Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Edueno, immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all'orizzonte le sagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I normanni bevevan calvados.
Il Duca d'Auge sospirò pur senza interrompere l'attento esame di quei fenomeni consunti.
Gli Unni cucinavano bistecche alla tartara, i Gaulois fumavano gitanes, i Romani disegnavano greche, i Franchi suonavano lire, i Saracineschi chiudevano persiane. I normanni bevevan calvados.
- Tutta questa storia - disse il Duca d'Auge al Duca d'Auge, - tutta questa storia per un po' di giochi di parole, per un po' d'anacronismi: una miseria. Non si troverà mai via d'uscita?».



lunedì 8 giugno 2020

Le menzogne della notte

L'ultimo libro che ho letto è «Le menzogne della notte» di Gesualdo Bufalino.
Anche qui, come nella mia precedente lettura - «Diceria dell'untore» -, la dedica è bellissima: «a noi due»: allude a un amore o è un atto di sfida lanciata al lettore?
[O ancora - trapela da una nota - è un richiamo a «Papà Goriot» di Honoré de Balzac, in cui l'ambizioso Eugène de Rastignac sfida la società apostrofando: «ed ora, a noi due!»]
Romanzo pseudo-storico, ambientato a metà dell'Ottocento in una desolata fortezza, «Le menzogne» narra l'ultima notte di quattro congiurati, rei di avere attentato alla persona del sovrano, in attesa di salire al patibolo.
Tanto basta per entrare nella letteratura: un lasciapassare per ogni fortezza narrata.
[Ne dico una per tutte, coeva a quest'altra, di simile malta e maniera: il castello d'If a largo di Marsiglia: prigione di Edmond Dantès e dell'abate Faria - le cento pagine più belle de «Il conte di Montecristo»].
«Le menzogne» è un romanzo che riluce, in filigrana, di un'intera filologia letteraria: la prosa bufalina fa d'ogni storia narrata il pretesto per - o la necessità di - raccontarne di nuove.
Brano a brano, in questo libro, c'è sempre una fenditura che si allarga tra le parole - a volte uno squarcio, a volte uno spioncino: basta buttarci l'occhio e star a vedere che accade.
«“Una volta”, disse frate Cirillo, “ho salvato dalle fiamme un libro, nel castello dei Torrearsa. Un libro di lussurie, ma pauroso, nel fondo, che si chiamava Decamerone.”
“E con ciò?” replicò il barone. “Se la morte è una pestilenza, vogliamo scordarcene, novellando?”.
“Dal novellare, no, ma dal confessarsi qualche bene può nascere,” rispose il brigante. “Dal confessarsi, dico, non ad un orecchio peloso di prete ma voi a voi stessi.”
“Quale ne sarebbe il guadagno?” chiese il soldato.
“Di capire se alla vita che avete vissuto questa fine da stoici faccia da epilogo degno; o se non stoni, invece, come una stecca improvvisa [...]" Nacque un grande silenzio. Infine il barone [...]: “Dacci dunque un argomento, tu che pari così saputo. Anche se non abbiamo da spendere né cento giorni né mille e una notte, ma un'unica miserabile e scarsa vigilia.”».



Disturbi del sistema binario

Esseri doppi popolano il mondo.
Sembra che lo raddoppino,
in realtà lo dimezzano.
«Disturbi del sistema binario», Valerio Magrelli



lunedì 1 giugno 2020

Un uomo che dorme e Le cose

Gli ultimi libri che ho letto sono «Un uomo che dorme» e «Le cose» di Georges Perec.

L'autore è uno di quelli per cui, a suo tempo, presi una cotta: un uomo capace di scrivere un intero romanzo senza una vocale («La scomparsa»), un lungo racconto palindromo («9691»), un folle - serio e ironico - saggio per convincere la Francia ad abbandonare gli scacchi in favore del gioco del go («Breve trattato sulla sottile arte del go»).

Il romanzo più noto di Perec è «La vita, istruzioni per l'uso» (meraviglia!) ma qui voglio dedicare una breve riflessione a «Le cose» - romanzo d'esordio - e a «Un uomo che dorme» - suo secondo (o terzo) romanzo -, che al primo fa da controcanto.

«Un uomo che dorme» racconta la storia di un anonimo studente che si educa all'indifferenza verso tutto; mentre «Le cose» narra la vicenda d'una giovane coppia che vive la passione per tutto ciò che il denaro permette d'avere.

Mi sono tornati in visita, l'uno e l'altro, durante la quarantena, quando le due pulsioni - l'indifferenza per tutto e il desiderio per ogni cosa - si sono come fuse assieme (e sarebbe bello esplorarne la nuova materia).

Due estratti.

«Cominciavano ormai a sentirsi trascinati lungo un cammino di cui non conoscevano né le svolte né la meta. A volte avevano paura. Ma, più spesso, erano solo impazienti: si sentivano pronti, erano disponibili: aspettavano di vivere, aspettavano il denaro». «Le cose».

«Qualche volta resti tre, quattro o anche cinque giorni in stanza, non sai. Dormi quasi ininterrottamente, ti lavi i calzini, le tue due camicie. Rileggi un romanzo poliziesco che hai già letto venti volte, e dimenticato venti volte. Fai le parole crociate su un vecchio "le Monde" che non ti decidi a buttar via. Disponi sulla panca quattro file da tredici carte, tiri via gli assi, metti il sette di cuori dopo il sei di cuori, l'otto di fiori dopo il sette di fiori, il due di picche al suo posto, il re di picche dopo la dama di picche, il jack di cuori dopo il dieci di cuori.

Mangi marmellata spalmata sul pane finché hai del pane, poi sui biscotti, se ne hai, poi direttamente dal barattolo col cucchiaino.

[...] L'indifferenza non ha inizio né fine: è uno stato immutabile, un peso, un'inerzia che nulla potrebbe far vacillare». «Un uomo che dorme».


sabato 30 maggio 2020

Filologia dell'anfibio

L'ultimo libro che ho letto è «Filologia dell'anfibio» di Michele Mari.

Un estratto (credo la pagina più bella mai scritta sul calcio ovvero la felicità di un bambino che tutti sanno).

«[...] Le partite nascevano verso sera, dopo la libera uscita, come nascono tutte le partite in tutti i giardinetti del mondo: deserto il campo, si profila un individuo isolato che palleggia con un pallone: cincischia, si avvolge su sé stesso con cadenze felpate, sparacchia qualche bordata contro un muro: poi appare un altro individuo e tacitamente (oh la conosco bene, codesta prossemica) si dispone a una dozzina-quindicina di metri dal primo, che senza aver ricevuto invito o segnale, senza domandarsi se l'altro non sia lì per caso o per motivi tutti suoi, gli indirizza il pallone: quello - colmo il cuore di gratitudine - ci palleggia due o tre volte da solo ad assaporarne la sfericità poi, temendo di sembrare irriconoscente, lo restituisce: e si palleggia così, gratuitamente, per dieci minuti, fino all'arrivo di un terzo e di un quarto: in quattro è già possibile quel che in tre è appena virtuale, cioè crear geometrie e rispondenze armoniose: e il numero cresce, cresce così, di una o due unità per volta, [...]»

«Filologia dell'anfibio» è un diario militare in cui l'autore ripercorre l'anno di leva: racconto autobiografico, classificatorio, d'inventario, corredato da disegni dell'autore.

Non è il libro di Michele Mari che preferisco.

Ho amato i suoi «La stiva e l'abisso» (romanzo marinaresco), «Io venía pien d'angoscia a rimirarti» (su luna, Leopardi e altro) e «Roderick Duddle» (romanzo d'avventura).

Ma quella pagina lì, sulla prossemica del calcio, vale tutto.



Orlando furioso

Quel ch'io vi debbo, posso di parole 
pagare in parte e d'opera d'inchiostro; 
né che poco io vi dia da imputar sono, 
che quanto io posso dar, tutto vi dono.

Ludovico Ariosto, «Orlando Furioso»



Diceria dell'untore

L'ultimo libro che ho letto è «Diceria dell'untore» di Gesualdo Bufalino.

È il suo romanzo d'esordio, a 61 anni (e già questo è un segno di speranza per ogni progetto di vita).
[Lui è siciliano, come un altro che ha iniziato a pubblicare molto tardi, Andrea Camilleri, e un altro ancora, Leonardo Sciascia, che ha preso il Bufalino per le corna e lo ha condotto nel pantheon della letteratura.
(I tre sono nati tra il '20 e il '25 a non più di 100 chilometri l'uno dall'altro. Ecco, quanta meraviglia e diversità in un solo lembo di tempo e di spazio)].

Il libro (non una recensione, ma due punti di fuga).

La vicenda racconta un amore di sanatorio, nel dopoguerra, e tutta una sciarada di sentimenti che, a poco a poco, va risolvendosi.
La dedica iniziale è bellissima: «A chi lo sa». Sarà per qualcuno che lo sa o non sa proprio a chi dedicarlo?
La Rocca in cui si svolge l'azione, invece, ricorda la Fortezza Bastiani a cui viene assegnato il sottotenente Giovanni Drogo ne «Il deserto dei tartari» di Dino Buzzati. Mentre c'è tutto un romanzo non scritto, e che però ogni pagina evoca, che m'ha riportato a "Uomini e no" di Elio Vittorini - forse anche per via del personaggio femminile, Marta Levi.

Un estratto. Parla Marta.
«[...] voglio giocare in tua compagnia un solitario mio di città, non è un solitario da tavolo, si fa camminando. L'ho inventato nei primi mesi ch'ero in città e non avevo nessuno, né amici né amiche. Uscivo di casa, la domenica, entravo nella folla, mi fissavo su una persona, solo che mi piacessero le sue spalle, la stanchezza del passo. Meglio se era un povero, un vecchio. Lo pedinavo senza parere, accrescendo ogni momento di un poco la mia scienza di lui [...]».



L'ultimo libro che ho letto


Mi piace leggere. Molto.
Mi piace riporre un libro letto nello scaffale.
In particolare: trovare la sua giusta collocazione - non ordino i libri per casa editrice, per anno, per lettera, per colore. Il mio criterio è l'affinità.
Amo leggere soprattutto classici. Perché è raro che mi penta della lettura.
Leggo anche libri a me contemporanei. Perché il mondo mio è questo.
Mi piace quando un libro me ne suggerisce un altro, in modo più o meno esplicito.
Quando trovo un filone letterario che proprio non immaginavo ci fosse.
Mi piace, di un autore che amo, non leggere tutto tutto. Perché le cose belle vorrei che non finissero mai.
Apprezzo le note a piè di pagina, e non a fine libro. Perché due segnalibri sono troppi.
Mi piace leggere perché mi fa venire voglia di scrivere, e quando scrivo faccio i conti con me stesso; mi pare di mettere in ordine i pensieri.
Mi piace leggere, dunque; e così ho deciso di segnalare qui i libri che leggo. Dite che lo fanno già in molti? Vero, ma dove si legge in due, si legge anche in tre.
E magari, poi, mi suggerite i libri che piacciono a voi.

Domani posto l'ultimo libro letto, il primo di questo spazio.

Ah! L'illustrazione è di Silvia Marinelli.