venerdì 26 giugno 2020

Dracula

L'ultimo libro che ho letto è «Dracula» di Bram Stoker.

Un romanzo di fine Ottocento di cui tutti conosciamo almeno un paio di trasposizioni: riduzioni, perlopiù e naturalmente, in cui quasi sempre manca, però, il terrifico controcanto di Mina Harker e Lucy Westerna.

[Da «Dracula di Bram Stoker», capolavoro di Francis Ford Coppola, a «Dracula», miniserie trasmessa da Netflix a gennaio 2020 - pare un secolo fa -, davvero ben fatta].

A tal proposito: un dato che sorprende (almeno un po'): la nostra industria culturale - il cinema soprattutto - deve tanto, tantissimo - e chissà per quanto ancora -, agli scrittori in attività sul finire del XIX secolo.

1881 «Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino» di Carlo Collodi
1883 «L'isola del tesoro» e «La freccia nera» di Robert Louis Stevenson
1886 «Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde» di Robert Louis Stevenson 
1887 «Uno studio in rosso», primo del ciclo di Sherlock Holmes, di Arthur Conan Doyle
1889 «Un americano alla corte di re Artù» di Mark Twain
1897 «Dracula» di Bram Stoker
1905 «Arsenio Lupin» di Maurice Leblanc

(È solo un assaggio: la lista è lunga).

Titoli che dicono qualcosa a tutti - anche a chi non piace leggere - (e qualcuno vada ad indagare questa stretta liaison tra noi e loro). Ma soprattutto: sceneggiatori di tutto il mondo unitevi (in biblioteca): sono certo che da quei trent'anni lì si possa tirar fuori un "inedito" ancora.

Quanto a «Dracula», brevemente, la storia, che si dipana esclusivamente attorno alle pagine di diario e all'epistolario dei protagonisti, fa davvero paura, fa molto più paura dei racconti di H. P. Lovecraft, fa una paura nera.

La chiave è tutta nel verosimile e nel movimento del romanzo che, spira dopo spira, nell'arco di 500 pagine, avvita il lettore alla coscienza di Jonathan Harker.

Capolavoro.

Un brano. «Coricatomi, ho dormito solo poche ore e, con la sensazione di non poter dormire dell'altro, mi sono alzato. Avevo appeso lo specchietto alla finestra e ho cominciato a radermi. E d'un tratto, mi sono sentito una mano sulla spalla e ho udito la voce del Conte che mi diceva: "Buongiorno". Ho sussultato, stupito com'ero di non averlo visto, dal momento che lo specchio rifletteva l'intera stanza alle mie spalle. Nel sobbalzo, m'ero fatto un piccolo taglio, ma non l'ho notato subito. Dopo aver risposto al saluto del Conte, ho girato lo specchio per rendermi conto di come non lo avessi notato. Ma questa volta, impossibile l'errore: mi stava vicino, lo vedevo da sopra la spalla, ma nello specchio egli non si rifletteva! Scorgevo l'intera stanza dietro di me, ma in essa non vi era traccia di creatura umana, a parte me. Era sorprendente e, aggiungendosi a tante altre stranezze, non faceva che accrescere quella vaga sensazione di disagio che avevo sempre provato in presenza del Conte; e proprio in quella mi sono accorto che dalla ferita era uscita qualche goccia di sangue, e che questo mi colava sul mento. Ho deposto il rasoio, volgendomi alla ricerca di un cerotto. Come il Conte ha scorto il mio volto, eccone gli occhi accendersi di una sorta di demoniaco furore, eccolo fare un gesto, come per afferrarmi alla gola. Mi sono ritratto, e la sua mano ha sfiorato il rosario cui è appeso il crocifisso. Un subitaneo mutamento si è verificato in lui: il furore è scomparso con tanta rapidità, da farmi dubitare che ci fosse stato».



Romanzi in tre righe

Aveva scommesso di bere quindici bicchieri di assenzio, accompagnandoli con un chilo di manzo. Al nono Théophile Papin, di Ivry, è stramazzato.

«Romanzi in tre righe», Félix Fénéon


martedì 23 giugno 2020

Le mille e una notte

L'ultimo libro che ho letto è «Le mille e una notte».

Una raccolta anonima di novelle in arabo, ma di lontane origini indo-persiane, che dal XVIII secolo, con la traduzione francese di Galland, segna il modo in cui l'Occidente immagina l'Oriente.

Una sorta di inception - il riferimento è al film di Nolan, con DiCaprio - che abita ancora la nostra volta cranica e dice: va' e rintraccia quel mondo antico! Dal sūq alla pittura Moghul, dal caravanserraglio al suono del sitar. Roba da turista, se vuoi.

«Le mille e una notte», però, è anche ben altra cosa: invenzione, canone universale, metafora fondante, storia e sogno, classico senza tempo.

Come il Don Chisciotte, come l'Odissea.

La storia - o meglio, la sua cornice - è nota, ma il libro va letto, e occhio a scegliere la traduzione migliore, perché basta una parola fuori posto a rompere l'incanto.

Un passaggio tratto dalla novella «Il facchino e le dame».

«"Facchino, alza la tua gerla e seguimi!".
"Va bene, forza" acconsentì quel bravo giovane. E riprendendo la gerla la seguì, continuando a mormorare: "Giorno propizio! giorno fecondo! giorno di allegrezza!...".
La donna lo fece inseguito fermare davanti alla bottega di un fruttivendolo. Comprò mele di color chiaro, cotogne di Turchia, pesche di Khullân, mele moscatelle, gelsomini, ninfee di Siria, cetrioli delicati, limoni di Marakîb, cedri reali, rose bianche, basilico, fiori di henné, camomilla fresca, violaciocche, mughetti, gigli, anemoni, viole, occhi di bue dai petali gialli, narcisi, fiori di melograno... Sistemò tutto nella gerla del facchino e quindi si recò dal macellaio».



venerdì 19 giugno 2020

IL CASTELLO

L'ultimo libro che ho letto è «Il castello» di Franz Kafka.

Un (altro) romanzo interrotto. Il mio preferito dei suoi. 

Non si dice mai, ma quel che rimane a lettura ultimata di un libro di Kafka è una tremenda incazzatura, un fastidio manifesto e una latente ansietà.

Ci si immedesima così tanto da volere entrare nel romanzo: per spaccare tutto e dirgliene quattro anche al protagonista (un certo «K.» che ricorre nella prosa del nostro caro Franz). 

Ciò naturalmente non è possibile, ma è vero il contrario: il romanzo irrompe nel mondo nostro, ci mette indosso l'abito di K. e a ciascuno indica il processo, il castello o la metamorfosi da affrontare. 

(Una lettura collettiva potrebbe innescare una rivolta sociale.)

La storia inizia con l'arrivo di un agrimensore - e di questa professione vorrei tanto parlare, ma forse è meglio in un altro post - alle pendici del Castello; e già da principio emerge la poetica di Kafka, capace di rendere possibili e reali avvenimenti insoliti e figure fuori dal comune.

«Era sera tarda quando K. arrivò. Il paese era sprofondato nella neve. Il colle non si vedeva, nebbia e tenebre lo circondavano, non il più debole chiarore rivelava il grande castello. K. sostò a lungo sul ponte di legno che dalla strada maestra conduceva al paese e guardò su nel vuoto apparente.

Poi andò a cercare un alloggio per la notte; alla locanda erano ancora svegli, l'oste non aveva stanze libere ma, assai stupito e sconcertato da quel cliente tardivo, offrì di farlo dormire nella sala su un pagliericcio. K. fu d'accordo».



Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Ci saranno altri giorni.
Ci saranno altre voci.

«Verrà la morte e avrà i tuoi occhi», Cesare Pavese




GERMINALE

L'ultimo libro che ho letto è «Germinale» di Émile Zola.

Seconda rivoluzione industriale: nord della Francia: una miniera: la classe operaia: il sabotaggio dei macchinari: il collasso del pozzo: e poi, un cavallo.

Un cavallo allegoria, che però è anche solo un cavallo. 
Un cavallo di nome Battaglia. 
Un cavallo del sottosuolo, vissuto in miniera, al buio. 
Un cavallo che ti entra nella testa e non ne esce più.

«Era Bataille. Partito dalla sala d'imbocco aveva galoppato disperatamente lungo le gallerie buie. Sembrava conoscere alla perfezione la strada in quella città sotterranea dove abitava da undici anni e, in quella notte profonda in cui aveva vissuto, gli occhi vedevano chiaramente. Galoppava piegando la testa, raccogliendo le zampe e correndo in quei budelli che il suo grande corpo riempiva interamente. Le strade si succedevano e si aprivano crocevia, ma lui non esitava. Dove andava? Là forse, verso la visione della sua giovinezza, al mulino in cui era nato, sulle rive delle Scarpe, verso il ricordo confuso del sole che bruciava in cielo come una lampada enorme. Voleva vivere, la sua memoria di bestia si risvegliava, la voglia di respirare l'aria delle pianure lo spingeva dritto davanti a sé fin quando avesse scoperto il buco, l'uscita sotto il cielo caldo, nella luce. La rivolta aveva avuto la meglio sulla sua antica rassegnazione. E dopo averlo accecato, quel pozzo lo stava ammazzando. L'acqua che lo inseguiva gli sferzava le cosce e mordeva la groppa. Ma più affondava più le gallerie diventavano strette, le volte basse e le pareti vicine. Galoppava lo stesso scorticandosi, lasciando sui rivestimenti brandelli di carne. La miniera sembrava stringersi su di lui per prenderlo e soffocarlo. Mentre il cavallo si avvicinava, Étienne e Catherine lo videro restare intrappolato tra le rocce. Era inciampato, si era rotto le zampe anteriori. E con un ultimo sforzo si era trascinato qualche metro avanti, ma i suoi fianchi non passavano e restò avvolto, incatenato dal terreno. Nell'allungare la testa sanguinante con i grandi occhi appannati cercava ancora un varco. L'acqua lo coprì rapidamente, cominciò a nitrire con lo stesso rantolo prolungato atroce, degli altri cavalli morti nella stalla. E l'agonia di quella vecchia bestia, fracassata, immobilizzata, che si dibatteva a quelle profondità, lontano dalla luce, fu raccapricciante. Il suo grido di terrore non cessava, con l'acqua alla criniera continuava, più rauco, la bocca tesa e spalancata. Si sentì un ultimo gorgoglio, il rumore sordo di una botte che si riempie. Poi seguì il silenzio».



domenica 14 giugno 2020

Il cortile maledetto

L'ultimo libro che ho letto è «Il cortile maledetto» di Ivo Andrić.

La novella narra d'un frate cattolico bosniaco (Pietro), in missione a Costantinopoli nel XV secolo, costretto a passare due mesi della sua vita in una prigione ottomana.

Ci si cala nella storia per voce di qualcuno, che racconta di tal altro, che novella d'altri ancora, e ancora, e ancora. Poi, così come si è discesa la china degli avvenimenti, la si risale, volta a volta per altri sentieri, sino alla voce da cui tutto iniziò.

Un libricino denso, capace però di contenere - cito Jolanda Marchiori, la traduttrice - tutta «un'amalgama etnico-psicologico del mondo orientale» il cui fascino, crudo e sognante come letteratura romantica vuole, ancora mi avvince.

«Il cortile maledetto» - titolo originale, in serbo, «La corte del diavolo» - è il solo libro di Andrić che io abbia letto - il suo più noto è «il ponte sulla Drina» - e sarà bene che mi metta in pari.

Questa volta, anziché riportare un brano del libro, racconto un aneddoto.

Tre anni fa Siniša Mihajlović - all'epoca allenatore del Torino, ora del Bologna - fu accusato di non conoscere il «Diario di Anna Frank»: al giornalista che ne chiedeva contezza mister Siniša, dopo aver argomentato la sua posizione - che qui non interessa -, aggiunse: «Posso fare una domanda io a te?».
«Certo».⠀
«Tu sai chi è Ivo Andrić?».⠀
«No» rispose il conduttore, dopo un significativo silenzio generale.⠀
«No... Ivo Andrić è premio Nobel per la Letteratura della ex Jugoslavia. A noi a scuola ci insegnavano Ivo Andrić».


Il marinaio

Prima vegliatrice - Non avevo mai visto il mare prima d'ora. Lí, da quella finestra, l'unica da cui si possa vedere il mare, lo si vede così poco!... È bello il mare degli altri paesi?

Seconda vegliatrice - Solo il mare degli altri paesi è bello. Il mare che vediamo ci dà sempre nostalgia di quello che non vedremo mai...

«Il marinaio», Fernando Pessoa



I fiori blu

L'ultimo libro che ho letto è «I fiori blu» di Raymond Queneau.
Un romanzo la cui materia sono il sogno, la storia, le parole e un mucchio di altre cose da leccarsi i baffi.
Il racconto si sviluppa nell'arco di 700 anni: col protagonista, il duca d'Auge (ma ci sono anche Cidrolin e due cavalli parlanti), che appare ogni 175 anni (1264, 1439, 1614, 1789, 1964).
Un'invenzione bellissima: un meccanismo - al cui interno ruota anche il movimento del genere giallo - che fa della letteratura un'esplorazione del potenziale creativo del narrare stesso.
Ma non è d'obbligo andare in profondità - in cerca del segno che riveli il segno, nel perimetro chiuso e mai finito del romanzo -, si può restare in superficie, ciondoloni sulla riva del racconto, osservando passare la storia e i suoi flutti.
(In questo libro ci si diverte un mondo)
«Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca d’Auge salì in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara. Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Edueno, immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all'orizzonte le sagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I normanni bevevan calvados.
Il Duca d'Auge sospirò pur senza interrompere l'attento esame di quei fenomeni consunti.
Gli Unni cucinavano bistecche alla tartara, i Gaulois fumavano gitanes, i Romani disegnavano greche, i Franchi suonavano lire, i Saracineschi chiudevano persiane. I normanni bevevan calvados.
- Tutta questa storia - disse il Duca d'Auge al Duca d'Auge, - tutta questa storia per un po' di giochi di parole, per un po' d'anacronismi: una miseria. Non si troverà mai via d'uscita?».



lunedì 8 giugno 2020

Le menzogne della notte

L'ultimo libro che ho letto è «Le menzogne della notte» di Gesualdo Bufalino.
Anche qui, come nella mia precedente lettura - «Diceria dell'untore» -, la dedica è bellissima: «a noi due»: allude a un amore o è un atto di sfida lanciata al lettore?
[O ancora - trapela da una nota - è un richiamo a «Papà Goriot» di Honoré de Balzac, in cui l'ambizioso Eugène de Rastignac sfida la società apostrofando: «ed ora, a noi due!»]
Romanzo pseudo-storico, ambientato a metà dell'Ottocento in una desolata fortezza, «Le menzogne» narra l'ultima notte di quattro congiurati, rei di avere attentato alla persona del sovrano, in attesa di salire al patibolo.
Tanto basta per entrare nella letteratura: un lasciapassare per ogni fortezza narrata.
[Ne dico una per tutte, coeva a quest'altra, di simile malta e maniera: il castello d'If a largo di Marsiglia: prigione di Edmond Dantès e dell'abate Faria - le cento pagine più belle de «Il conte di Montecristo»].
«Le menzogne» è un romanzo che riluce, in filigrana, di un'intera filologia letteraria: la prosa bufalina fa d'ogni storia narrata il pretesto per - o la necessità di - raccontarne di nuove.
Brano a brano, in questo libro, c'è sempre una fenditura che si allarga tra le parole - a volte uno squarcio, a volte uno spioncino: basta buttarci l'occhio e star a vedere che accade.
«“Una volta”, disse frate Cirillo, “ho salvato dalle fiamme un libro, nel castello dei Torrearsa. Un libro di lussurie, ma pauroso, nel fondo, che si chiamava Decamerone.”
“E con ciò?” replicò il barone. “Se la morte è una pestilenza, vogliamo scordarcene, novellando?”.
“Dal novellare, no, ma dal confessarsi qualche bene può nascere,” rispose il brigante. “Dal confessarsi, dico, non ad un orecchio peloso di prete ma voi a voi stessi.”
“Quale ne sarebbe il guadagno?” chiese il soldato.
“Di capire se alla vita che avete vissuto questa fine da stoici faccia da epilogo degno; o se non stoni, invece, come una stecca improvvisa [...]" Nacque un grande silenzio. Infine il barone [...]: “Dacci dunque un argomento, tu che pari così saputo. Anche se non abbiamo da spendere né cento giorni né mille e una notte, ma un'unica miserabile e scarsa vigilia.”».



Disturbi del sistema binario

Esseri doppi popolano il mondo.
Sembra che lo raddoppino,
in realtà lo dimezzano.
«Disturbi del sistema binario», Valerio Magrelli



lunedì 1 giugno 2020

Un uomo che dorme e Le cose

Gli ultimi libri che ho letto sono «Un uomo che dorme» e «Le cose» di Georges Perec.

L'autore è uno di quelli per cui, a suo tempo, presi una cotta: un uomo capace di scrivere un intero romanzo senza una vocale («La scomparsa»), un lungo racconto palindromo («9691»), un folle - serio e ironico - saggio per convincere la Francia ad abbandonare gli scacchi in favore del gioco del go («Breve trattato sulla sottile arte del go»).

Il romanzo più noto di Perec è «La vita, istruzioni per l'uso» (meraviglia!) ma qui voglio dedicare una breve riflessione a «Le cose» - romanzo d'esordio - e a «Un uomo che dorme» - suo secondo (o terzo) romanzo -, che al primo fa da controcanto.

«Un uomo che dorme» racconta la storia di un anonimo studente che si educa all'indifferenza verso tutto; mentre «Le cose» narra la vicenda d'una giovane coppia che vive la passione per tutto ciò che il denaro permette d'avere.

Mi sono tornati in visita, l'uno e l'altro, durante la quarantena, quando le due pulsioni - l'indifferenza per tutto e il desiderio per ogni cosa - si sono come fuse assieme (e sarebbe bello esplorarne la nuova materia).

Due estratti.

«Cominciavano ormai a sentirsi trascinati lungo un cammino di cui non conoscevano né le svolte né la meta. A volte avevano paura. Ma, più spesso, erano solo impazienti: si sentivano pronti, erano disponibili: aspettavano di vivere, aspettavano il denaro». «Le cose».

«Qualche volta resti tre, quattro o anche cinque giorni in stanza, non sai. Dormi quasi ininterrottamente, ti lavi i calzini, le tue due camicie. Rileggi un romanzo poliziesco che hai già letto venti volte, e dimenticato venti volte. Fai le parole crociate su un vecchio "le Monde" che non ti decidi a buttar via. Disponi sulla panca quattro file da tredici carte, tiri via gli assi, metti il sette di cuori dopo il sei di cuori, l'otto di fiori dopo il sette di fiori, il due di picche al suo posto, il re di picche dopo la dama di picche, il jack di cuori dopo il dieci di cuori.

Mangi marmellata spalmata sul pane finché hai del pane, poi sui biscotti, se ne hai, poi direttamente dal barattolo col cucchiaino.

[...] L'indifferenza non ha inizio né fine: è uno stato immutabile, un peso, un'inerzia che nulla potrebbe far vacillare». «Un uomo che dorme».